Il nostro territorio, e chi legge queste pagine lo sa particolarmente bene, è disseminato di bellezza: quella naturale, del paesaggio orobico, e quella fatta di tracce frutto del passaggio umano dei secoli scorsi. Oltre alla maestosità di opere relativamente recenti quali il Casinò, il Grand Hotel, i palazzi nobiliari più antichi o le imponenti opere ingegneristiche delle dighe e delle relative centrali, giusto per citare alcuni esempi, vi sono una serie di manufatti dal gusto rustico, semplice ed essenziale che spuntano dietro ad ogni angolo, lasciandoci colmi di meraviglia e rispetto per chi con fatica li ha concepiti e realizzati.
Se immaginiamo la povertà e la scolarizzazione praticamente inesistente dei secoli scorsi, alcune costruzioni ci appaiono ancora più geniali e ben concepite di quel che sono. Del resto molte di esse si mostrano ai nostri occhi come cumuli di pietre più o meno lavorate o come edifici diroccati dei quali diventa talvolta difficile intuirne l’originale funzione e funzionamento. Per chi non è nativo della valle o non ne conosce il passato diventa appunto complesso leggere certi manufatti come se fossero libri aperti che parlano di storie, tradizioni e culture quasi perse. È d’obbligo specificare che tali costruzioni non sono del tutto dismesse poiché alcuni lavori o utilizzi antichi a esse connessi sono ancora praticati, anche se sempre più sporadicamente.
Per fare qualche esempio, alcuni anni fa, mossa dall’interesse per la cultura della Valle Taleggio, mi ero imbattuta nelle vicende che giravano attorno alle calchere e ai poiàt, storie legate alle eroiche fatiche dei nostri antenati, che spesso lasciavano la terra natale per fare fortuna all’estero, sfruttando proprio la loro capacità di ricavare calce e carbone rispettivamente da pietra e legno. Successivamente il mio interesse si era spostato sull’affascinante mondo dell’alpeggio scoprendo manufatti quali i bàrech (muri a secco che delimitavano i prati), i calecc (ricoveri sempre in muro a secco ma a cielo aperto) e i baitù (modesti ricoveri coperti). Di recente è stato invece il mio lavoro a portarmi alla scoperta di un ambito che mai aveva destato il mio interesse e che anzi, devo ammetterlo, guardavo con una certa diffidenza: la caccia.
Credo che la mia innata curiosità mi abbia portata sin da piccola a chiedere cosa fossero quelle piccole casette malmesse circondate da una strana corona di piante per nulla naturali e casuali, ma mi accontentavo di sapere che erano roccoli usati per cacciare. Mi bastava conoscerne il nome: cosa, quando e come si cacciasse e soprattutto perché ancora non me lo chiedevo. Ebbene oggi mi sono tolta qualche curiosità e, come
spesso accade, attraverso la conoscenza ho abbandonato qualche pregiudizio… Nel passato la caccia era parte della quotidianità bergamasca, non per divertimento ma per esigenze alimentari, con l’intento di arricchire la misera dieta con delle proteine animali.
Prima della diffusione delle armi, le tecniche di cattura delle bestie erano frutto di attenta conoscenza e osservazione della natura e quindi di abilità e inventiva, insomma erano delle vere conquiste. Mentre la selvaggina di grossa taglia è da sempre stata appannaggio della nobiltà, i piccoli volatili meglio si prestavano alla cattura per fini alimentari del popolo. I roccoli rientrano appunto fra le strutture per l’uccellagione, ovvero la cattura, prima che l’uccisione, dei volatili. I roccoli erano diffusi nel Nord Italia, soprattutto in montagna e in collina, dove venivano posti in posizioni strategiche di osservazione e di passo migratorio delle prede.
L’ORIGINE DELLA PAROLA
L’origine del termine roccolo non ha una chiara etimologia, ma si suppone derivi dal latino rotolu (m), diminutivo di rota, in quanto la loro forma cilindrica richiama quella della ruota, oppure da rocca (nel gallico roc) in riferimento alla sommità sulla quale si ergevano. Sinonimo di roccolo è ragnaia, da ragna, che tra XVI e XVII secolo indicava la rete da uccellare secondo il principio di cattura attuato in natura dai ragni. Analoghe strutture situate in pianura venivano denominate bresciane o brescianelle e rientrano tutte nell’ambito delle uccellande, in generale simili tra loro e ben differenti dalle paretaie, caratterizzate appunto dalla presenza di due paretelle, ovvero reti stese in un prato. Si tratta sempre e comunque di tecniche d’aucupio, termine che deriva dal latino aucupium, cioè cattura (capere) degli uccelli (avis). Fonti storiche locali fanno riferimento all’attività dei roccoli: la citazione più antica pare risalire al 1376 in merito alla cattura con reti presso il monte San Vigilio di Bergamo, ma vi è anche un interessante riferimento all’abate di San Pietro d’Orzio, frazione di San Giovanni Bianco, che tra il ‘300 e il ‘400, spinto dalla necessità di ovviare
a una forte carestia, avrebbe ideato un roccolo per riuscire a integrare le misere diete dei “villani” con le proteine derivate dall’avifauna in transito.
IL FUNZIONAMENTO DEL ROCCOLO
Per i non addetti ai lavori non è semplice capire come funzionasse un roccolo, ma cerchiamo di spiegarlo attraverso un breve tratteggio immaginario della loro struttura. Solitamente i roccoli hanno un filare di carpini che costituisce il corridoio (sigalér) d’ingresso. Le piante sono distanziate di circa 1,50 mt e in altezza (circa 4 mt) si uniscono creando una vera e propria volta. Il tutto serve proprio a camuffare le reti di cattura
poste verticalmente: le pareti creano infatti dei giochi di luce che attirano gli uccelli in fuga, i quali restano appunto impigliati alle reti (in gergo si insaccano). Attiguo al corridoio ecco la buttata, a ferro di cavallo o circolare (tònd) costituita solitamente da alberi di 5/6 metri quali ciliegi, betulle, faggi o roveri su cui gli uccelli tendono a “buttarsi” attratti dai richiami vivi o dalle bacche del boschetto sottostante (come il sorbo degli uccellatori o torminale, la fitolacca, il biancospino o il sambuco).
Al centro della buttata sorge il casello (casèl) in muratura o legno e coperto da piante rampicanti per camuffarlo nella vegetazione, che non deve mai superarlo in altezza. Qui, all’ultimo piano, si apposta il roccolatore, vigile nell’intervenire quando gli uccelli restano nelle reti, e pronto a lanciare lo spauracchio, lo zimbello o a suonare gli zufoli. Lo spauracchio (sboradùr) altro non è se non un manico in legno di circa 50 cm con una testa tonda in vimini, che vuole ricordare l’arrivo di un rapace in picchiata che spaventa gli uccelli, oppure un cavo metallico con appese latte e stracci con la medesima funzione.Stesso discorso per lo zimbello (sàmbel) un uccello da richiamo legato a unospago che viene mosso dall’uccellatore per lusingare le prede. Infine i richiami o fischietti (sifulì) sono appunto zufoli di varie forme in legno che riproducono il canto di molti uccelli. Tutti questi arnesi trovano ricovero al pian terreno del casello, dove vi sono anche le gabbie in legno, con fondo in fil di ferro, contenenti gli uccelli da richiamo (quali merli, tordi o stornelli) che vengono poi appese alle piante o lasciate sul terreno. Infine un ruolo da protagonista nella cattura è giocato dalle reti (rét, pl. récc) e dalle armature (armadüre) ovvero un filo resistente su cui s’infila la rete a tremaglio per poi appenderla. Oggi sono ammesse solo reti a maglie ampie (tra 21 e 28 cm) mentre un tempo l’ampiezza dipendeva dall’uccello che s’intendeva predare. Insomma, si è veramente di fronte a un monumento naturalistico e dell’ingegno di uomini semplici e non istruiti, eppure fini e attenti conoscitori della natura, che ben sapevano dove collocare il sito (ovvero in punti di passaggio e migrazione) e come potare al meglio le piante e di esse quali tipologia piantare.
Nel corso del tempo, alla cattura per approvvigionamento del cibo si è affiancata quella per la fornitura di richiami vivi alla caccia d’appostamento finché recentemente si è completamente sostituita quella con finalità scientifiche, che dagli anni ’20 del XX secolo ha portato ad affinare la tecnica dell’inanellamento. Dagli anni ’50 del secolo scorso si è iniziato ad attribuire alla caccia la causa del calo degli uccelli e con la diffusione della visione ambientalista dei Verdi, l’immagine negativa dei roccoli è andata peggiorando. È del 1970 la legge che ammette l’uccellagione solo a fini di studio o amatoriali e del 1972 quella che dichiara la fauna selvatica patrimonio dello Stato.
Con l’istituzione dell’Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica (INFS) e di Euring, la banca dati europea per lo studio ornitologico, alcuni roccoli gestiti da personale qualificato fungono ancora oggi da osservatori di studio e ricerca mentre dal luglio 2015, con l’approvazione dell’articolo 21 della Legge Europea, il Senato ha posto fine anche alla cattura con vischio e reti dei richiami vivi per la caccia d’appostamento. Tutt’oggi è sempre l’INFS a formare e autorizzare gli operatori specializzati per i punti di cattura finalizzati all’osservazione ornitologica (basti pensare nella nostra Valle alla stazione della Passata, a Miragolo di Zogno). Con la Legge Regionale 26/93 sono stati introdotti dei contributi a tutela del recupero dei roccoli e nel 2000 la Convenzione del Paesaggio dell’Unione Europea ha nobilitato il patrimonio ambientale in generale, dunque anche quello antropizzato, caricandolo di valore non solo ambientale ed ecologico, ma anche culturale e sociale.
Anche grazie a queste prese di posizione politica si è salvato il complesso arboreo che caratterizza i siti di cattura con le reti e con esso si è tramandata sino ad oggi la tradizione dei tecnici di potatura, veri artisti del taglio arboreo. Ciononostante, le agevolazioni non sono sempre bastate a preservare le centinaia di roccoli dismessi ed è per questo che oggi in molti siti s’intravede solo il casello abbandonato, mentre non è più possibile cogliere il delicato sistema arboreo.
Articolo estratto da “Quaderni Brembani n.15” e scritto da Marta Gaia Torriani