Grazie al direttore del Centro Studi Valle Imagna, Antonio Carminati, approda sulle nostre pagine una nuova rubrica che parla di cultura, società, costumi e vita in contrada, quella di ieri e di quella di oggi.
La stagione invernale è colma di sorprese. Se, per un verso, è un periodo povero di offerte di lavoro e i programmi delle attività sono – per così dire – sospesi e “ricoperti” da una fitta coltre di neve, dall’altro si presenta ricco di relazioni sociali, per le numerose opportunità di incontro tra i membri delle famiglie e pure sul piano interparentale.
I gruppi familiari sono finalmente riuniti e, ad attendere i giovanotti, rimpatriati dai boschi e dai cantieri edili d’Oltralpe, ci sono le giovinette in cerca di marito. La dümìneca, quando e s’mitìa sö ol vestìt de la fèsta, ben conservato nel vestére, confezionato dalle donne di casa, oppure fatto su misura dalla sarta del villaggio in cambio di qualche panèt de butìr, diventava uno dei momenti privilegiati di visibilità per quei giovanotti che si sentivano pronti a “cercar moglie”, mentre le ragazze, per farsi notare, ie scomensàa a fà sö la cua do l’öf, ossia si esibivano in pettinature ricercate, e pure esse indossavano i estìne piö bèle.
Da Natale a Pasqua venivano organizzate le feste più solenni e si celebravano quasi tutti i matrimoni, mentre le nascite avvenivano pressoché da ottobre a dicembre. Si rinnovava così il ciclo della vita: naturale, sociale ed economica. Ciascuna contrada aveva una o più stalle presso le quali, soprattutto la sera, ma anche durante le nevicate giornaliere, convenivano gli abitanti delle varie corti. Alcuni ambienti erano più frequentati dai ragazzi, altri dalle ragazze, oppure da uomini e donne già maritate.
La chiesa, invece, rappresentava lo spazio d’incontro degli abitanti nelle varie contrade, i quali, almeno una volta la settimana, ma anche nel corso di noéne e trìdui, convergevano verso la parrocchiale. L’ostaréa era lo spazio frequentato soprattutto dagli uomini sposati, da coloro, cioè, che ìa damò mitìt sö ol capèl. Le parrocchie, assai attive e anche nelle comunità meno numerose, potevano contare sulla presenza de preòst e cöràt, i quali organizzavano di frequente incontri di formazione per associazioni religiose e confraternite, i fàa ol teatro e la scöla de müseca per ol bandì; predisponevano pure corsi di preparazione (anche di lingua) rivolti a quegli emigrati che, da lì a poche settimane, sarebbero ripartiti per la nuova campagna lavorativa all’estero.
L’inverno, dunque, era tutt’altro che una stagione morta, anzi, dal punto di vista sociale, era un periodo vivacissimo! Poi, a la Felìsa, gh’ìa ol mercàt, öna ölta ògne quìndes dé, che rappresentava un’offerta di incontro per la popolazione dell’Alta Valle Imagna. Diversi livelli di socializzazione (di contrada, paese e valle) si compenetravano e contribuivano a definire un quadro relazionale assai articolato e ricco. Carbonèr e boscaröi i se troàa dó dal Danèla a tö corlàss e sighür, da preparare per la successiva e quasi imminente stagione lavorativa, mentre gruppi di giovani i se teràa ‘nsèma per ‘ndà a la Cornabüsa, a San Piro o sö ai Trì Fó, oppure sul Resegù… neve permettendo.
Durante la stagione invernale, alberi e piante saranno stati fermi, ma la natura umana, invece, trovava il tempo e lo spazio per risvegliarsi e intrecciare nuovi amori. Nelle contrade – che un tempo pullulavano di persone – si liberava energia vitale, sempre dal lavoro e dall’agire concreto e diretto delle persone, dai programmi di sviluppo e di ampliamento delle famiglie, la cui centralità rimaneva agganciata ai singoli componenti e al loro futuro e si misurava sull’espansione del campo e del prato, nella costruzione di una nuova stalla, nella tessitura di intrecci tra i gruppi parentali, attraverso nuovi contratti matrimoniali.
L’inverno era la stagione migliore per ‘ndà a murùse prima, per sercà e tö muìr poi. Giovani e ragazze si apprestavano a diventare uomini e donne. Entàt i scomensàa a ardàs entùren. Endà a murùse significava per il giovanotto uscire dalla stretta sfera individuale o professionale, per andare incontro alle giovani fanciulle, preferibilmente della contrada o del paese, costruendo con esse relazioni amicali, senza peraltro avvicinarsi troppo alle abitazioni delle rispettive famiglie, perché ‘ndà en cà de öna tusa, oppure parlà ‘nsèma a öna tusa, avevano un altro significato, certamente molto più impegnativo, anzi una dichiarazione di fidanzamento. Endà a murùse, invece, rappresentava una sorta di rito d’iniziazione sociale e i giovani che si apprestavano ad entrare nel mondo degli adulti – non ancora legati da una relazione ufficiale di fidanzamento – in questo modo dichiaravano pubblicamente la loro presenza matura nella comunità e quella delle famiglie di appartenenza.
Essi manifestavano il bisogno di conoscere e di farsi conoscere nella contrada, nel paese e anche nella valle. La mare dei giovani apéna lesàcc fò dal nì, ossia alle loro prime esperienze relazionali con le ragazze della contrada, non mancava di farsi lustro dei propri figli e, rivolgendosi alle altre donne della corte, esclamava: “Ardì fömègn: tegnì seràt sö e òstre polàstre, perchè e mì galècc i è töcc entùren”. Era giunto il momento per il giovanotto, che sino a prima aveva vissuto della luce riflessa della famiglia, di affermare una propria dimensione – con dignità e autorevolezza – nel rapporto con gli altri individui del gruppo, presentandosi come una persona portatrice di interessi propri, oltre che della famiglia di provenienza.
Una filastrocca, raccolta dalla tradizione orale nel villaggio di San Simù, pone bene in evidenza lo stacco tra le azioni de ‘ndà a murùse e sercà muìr, la prima propedeutica alla seconda. La ragazza che la smorosàa tròp, non era più affidabile per costruire un progetto definitivo di famiglia. “La mià murùsa ègia la tègne per resèrva, e quande spùnta l'èrba la mànde a pascolà. La mànde a pascolà ensèma ai cavrète, l'amùr con e seète e l'faró mai piö”. La scelta della futura sposa era un fatto riservato, che difficilmente nel giovane trovava correlazione nell’essere andato prima a murùse, poiché valeva il detto: “La murùsa dol cümù, l’è la spusa de neghü”.
I gruppetti di giovani in età di matrimonio, che girovagavano di stalla in stalla e di contrada in contrada, quando i scomensàa a pesà dó dal sintìr, non erano ben visti dai giovani degli altri paesi, perchè i gà portàa e vià e tosà. Le manifestazioni di esuberanza, anche di spavalderia, dei gruppi di ragazzi festanti non sempre erano accettate dalle comunità delle contrade o dei villaggi vicini, dove si recavano. “Cosè fài, chelò, chi böle?” – si contestava loro. Era breve il passaggio dalle semplici contestazioni ai diverbi accesi, sino a provocare vere e proprie scaramucce e agguati a… plocàde! Intervenivano, in questo caso, gli anziani del luogo, i quali facevano notare che piö galècc en do stès polèr i và mia bé, perchè i se bèca.
Molte relazioni sentimentali nascevano e si sviluppavano proprio durante l'inverno nelle stalle, primi spazi di socialità e di libertà. In genere, i giovani – superate le prime esperienze de ‘ndà a murùse – sceglievano le loro future mogli innanzitutto nell’ambito della propria contrada o del proprio paese, dove le rispettive famiglie erano conosciute. Ciò era una garanzia per la continuità dei gruppi parentali e, più in generale, di tutto il paese. Gli anziani non mancavano di ricordare ai più giovani che, chi e l’töl muìr en foresteréa, e l’mànda a gambe ‘n aria la faméa! La spùsa che ì da vià avrebbe potuto generare seri squilibri all’interno della struttura e delle relazioni consolidate della famiglia tradizionale. Così pure si rafforzavano, anche attraverso i matrimoni, specifiche catene professionali aventi un certo rilievo sociale: il giovane bergamì, ad esempio, tendenzialmente cercava moglie tra le ragazze delle famiglie bergamine.
Parlà ‘nsèma a ‘na tusa significava coltivare una relazione di fidanzamento. Nella gerarchia dei ruoli, si diventava omègn e fömegn solo a seguito del matrimonio. Certamente l’uomo e la donna che non si sposavano non potevano mantenere vita natural durante gli appellativi di tus e tusa, ma assumevano i ruoli di barba e di mèda, che i componenti della famiglia estesa così personalizzavano, caricandoli di una valenza affettiva: ol mì barba e la mià mèda. L’appellativo di pötaègia, invece, utilizzato spesso in senso spregiativo, veniva attribuito alla donna (pöta) diventata anziana (ègia) senza mai avere conosciuto l’età da marito.
Fidanzamenti brevi: parlà ‘nsèma l’envèren prima, per sposàs chèl dòpo. L’obiettivo principale era quello de metì sö cà, ossia formare una propria famiglia col matrimonio, oppure di rafforzare quella di provenienza. Col matrimonio l’óm e l’mitìa sö ol capèl! E… guai a fàssöl portà vià! Fàs portà vià ol capèl significata essere incorsi in una situazione disonorevole, per sé e la famiglia, mentre tacà sö ol capèl equivale, ancora oggi, a una dichiarazione di resa, riferita soprattutto a chi abbandona i propri impegni nella famiglia, ad esempio facendosi mantenere da altri, come dalla moglie benestante…
Testo scritto da Antonio Carminati, direttore del Centro Studi Valle Imagna
( Immagine in evidenza: Gruppo di giovani e uomini in festa. Anni Quaranta del Novecento. Archivio delle fotografie del Centro Studi Valle Imagna).