Partire dalla bergamasca per arrivare fino a Cuba. Può sembrare un viaggio strano già di per sé, ma se a compierlo è un prete allora la storia diventa ancora più interessante. A portarci nei Caraibi ci pensa Don Massimo Peracchi, ex curato in Valle Imagna e diventato poi missionario a Cuba.
“Io sono nato a Gazzaniga, a 19 anni sono entrato in seminario e il sei giugno del ’98 sono diventato prete. Sono stato 11 anni in Valle Imagna, come parroco di Mazzoleni prima e anche di Valsecca poi. Dal dicembre di due anni fa sono parroco a Baracoa, una cittadina all’estremo oriente di Cuba, la zona più povera dell’isola”.
Una scelta di vita sicuramente singolare, di cui Don Massimo prova a spiegarci causa e sviluppi. “Quando ero in Valle Imagna ho cominciato a provare due sentimenti verso la Chiesa: da un lato la sofferenza per i suoi limiti, dall’altro volevo fare del bene, aprirmi a nuovi orizzonti per servire l’uomo di oggi. In particolare, la prima missione della Chiesa è l’attenzione ai poveri e questo ha suscitato in me una riflessione sulla possibilità di diventare missionario”.
Da semplice ipotesi a fatto concreto: “All’inizio del 2017 ho compiuto un breve viaggio in Perù per incontrare due amici del Mato Grosso – racconta Don Massimo – lì questo desiderio si è fatto più intenso. Circa un anno dopo, il Vescovo mi ha chiesto se fossi disponibile ad un’esperienza in missione e ho risposto di sì. Per diventare missionari si può fare parte di alcuni ordini religiosi, come i Saveriani, che restano in missione a vita: io invece sono un prete fidei donu, quando una diocesi chiede ad un’altra un prete in dono io vengo mandato in missione. Nel mio caso, la Diocesi di Bergamo sta donando quattro preti a quella di Guantanamo-Baracoa, creata da Giovanni Paolo II. Alcuni preti bergamaschi sono stati invitati qui a vita, oggi, invece, si preferisce un’esperienza di alcuni anni, per poi tornare a casa”.
Ecco, dunque, che ha inizio l’esperienza della missione, in una terra che, come racconta il don, ha caratteristiche tutte sue. “Di Cuba mi piace la natura, è bellissima, è una cosa che colpisce da subito. Qui le persone sono semplici, ci si relaziona facilmente con la gente, specialmente chi lavora la terra ma non solo. È un luogo che avrebbe parecchie potenzialità, ma la vita qui per molti è difficile”. Ed è proprio nelle difficoltà che la religione può offrire un supporto. “A differenza di quando ho osservato in Italia, qui molte persone stanno riscoprendo la fede, è interpretata come una possibilità nuova. Ci sono poi piccole comunità che appunto scoprono la fede, sembra di vedere la prima nascita di una piccola chiesa, con tutti i pregi e i difetti che questo comporta. Esistono anche chiese protestanti nel territorio della Diocesi, da un lato questo porta ad approfondire la propria fede, ma devo dire che c’è poco spirito ecumenico”.
Alle sfide legate all’annuncio del Vangelo si aggiungono quelle connaturate all’epidemia. “Sinceramente, quest’anno di pandemia mi ha fatto preoccupare più per la mia Bergamo che per Cuba. Anche noi abbiamo vissuto il lockdown, da fine marzo a metà giugno, ma qui a Baracoa ci sono stati pochissimi casi, in questi giorni un po’ sono aumentati, ma nulla a che vedere con i numeri dell’Italia, anche se i cubani hanno paura lo stesso”.
Il pensiero corre all’Italia, che per Don Massimo significa soprattutto gli affetti più cari. “Dell’Italia mi manca la possibilità di uscire e incontrare gli amici, oltre ovviamente ad alcune ghiottonerie che qui non si trovano!”. L’ultima domanda riguarda il futuro, che però per don Massimo non è ancora deciso. “Per ora voglio terminare il mio rodaggio qui , per il futuro chissà, lascio aperta ogni possibilità”.