Con i suoi quasi 1.700 metri di altitudine, la cava di ardesia del Comune di Valleve è certamente fra le più alte a cielo aperto di tutta Europa. Lassù, in località Fontanafredda, da ormai 61 anni svolge la propria instancabile attività estrattiva la Società Cooperativa Escavatori Ardesie “Capo Brembo”. Alla guida un giovane, Simone Eroini di 37 anni, che ha scelto di seguire le orme del nonno Renato – uno dei fondatori della Società – e del papà Leandro, portando avanti una lunga storia di gestione famigliare che affonda le proprie radici nei lontani anni ’50.
Al tempo, la vita di montagna era dura: non c’erano attività economiche in paese che garantissero sostentamento, costringendo gli uomini ad emigrare nelle vicine Francia e Svizzera o spingendo intere famiglie a trasferirsi più a valle, attivando quell’inesorabile processo di spopolamento che ancora oggi grava sulle spalle dei piccoli borghi montani. La volontà di restare aggrappati alle proprie radici fu, al tempo, più forte di qualsiasi desiderio di emigrare. E così una squadra di operai del posto scoprì degli affioramenti di roccia che, una volta lavorati, offrivano straordinarie proprietà di copertura, particolarmente resistenti a grossi carichi di pressione. Perfetti, insomma, per le case montane.
Forte di questa nuova consapevolezza, nel 1960 nasce così la Società Cooperativa. “Fra i membri della squadra iniziale c’era anche mio nonno, Renato – racconta Simone – Insieme ad altri residenti del paese ha mandato avanti l’attività estrattiva, sviluppandola costantemente fino agli anni ’80. Successivamente anche mio padre Leandro si è inserito nella gestione: lui si è sempre occupato della commercializzazione, mentre mio nonno della lavorazione manuale della pietra”. A raccogliere l’eredità di famiglia ci ha pensato Simone, la terza generazione, che da una decina d’anni si occupa sia della gestione dell’azienda che della lavorazione dell’ardesia.
“È stato un po’ inaspettato a dire il vero, perché ho affrontato un percorso di studi completamente differente – spiega il 37enne – Ma sono rimasto affascinato dall’attività, in particolare dalla lavorazione manuale della pietra, tecnica che ho imparato in questi anni. Così ho deciso di lavorare in questo settore, grazie anche al supporto di mio padre che mi dà ancora una grossa mano nonostante sia appena andato in pensione”. Sono una dozzina gli operai che – ad oggi – lavorano nella Società Cooperativa, tutti fra i 30 ed i 50 anni: alcuni fra gli “scalpellini” – così è chiamato chi lavora l’ardesia – possono vantare una lunga esperienza addirittura trentennale.
Quasi una vita intera dedicata ad un lavoro tanto duro quanto soddisfacente, che nel corso del tempo ha saputo adattarsi alle nuove tecnologie e tecniche innovative. Inizialmente, infatti, in area estrattiva veniva utilizzato l’esplosivo che aveva però come effetto collaterale quello di spezzare e rompere la pietra. “Con il tempo e grazie all’avvento della tecnologia, si è riusciti ad ottenere un altro tipo di lavorazione – spiega Simone in poche parole – ovvero quella che consente il taglio con un filo diamantato e la creazione di alcuni banconi dove viene “affettata” la pietra. Dei camion trasportano poi il tutto nel laboratorio 400 metri più a valle, dove a sua volta viene rimpicciolita tramite delle fresatrici a disco, sempre diamantati, che tagliano in base alla misura necessaria”.
La fase successiva è quella più affascinante dell’intera lavorazione. Le abili mani degli “scalpellini” sfogliano e sagomano questi blocchetti di pietra in base all’esigenza: con la punta stondata se si tratta di un tetto a squame, oppure a punta viva nel caso di una copertura orizzontale, che ben si adattano alle zone più rustiche di montagna dove la resistenza è più importante dell’apparenza. Non c’è una lastra uguale all’altra, ognuna è unica nel suo genere. “Dipende in ogni caso anche dalle zone di mercato – sottolinea il giovane – In pianura viene prediletto uno spessore più contenuto e sottile, accostato a materiali più moderni come vetro e metallo, che richiede un taglio a macchina della pietra”.
Sebbene nell’immaginario comune l’ardesia venga associata alla copertura di case e baite, non è questo il suo unico utilizzo: nel tempo, infatti, il mercato ha aperto un ampio ventaglio di possibilità, dai pavimenti interni ed esterni ai rivestimenti di bagni e docce, spesso accostati ad altri materiali più “moderni”. Alcuni utilizzi sono perfino curiosi, come i piatti da portata oppure le bomboniere di nozze composte da sottobicchieri di ardesia su cui vengono incisi i nomi degli sposi.
“Ci siamo resi conto che vi sono tanti utilizzi e sono tutti validi – afferma Simone – Ma il migliore resta sempre la copertura dei tetti proprio per via della proprietà particolare della nostra pietra che, contrariamente ad altre, invece di sfaldarsi ed indebolirsi con il tempo diventa sempre più duro. La resistenza negli anni è sicuramente il suo più grande pregio: si può tranquillamente dire che sia un materiale praticamente eterno”.
In questi 61 anni di attività la Società Cooperativa di Valleve ha ricoperto moltissime case in Valle Brembana, ma non solo. Il Piemonte (e anni addietro anche la Val d’Aosta) è da sempre un importante punto di riferimento per l’esportazione dell’ardesia, in particolare nei territori dell’Ossola – da Domodossola a tutte le valli montane limitrofe – e nella zona sopra Cuneo. Così come alcune zone appenniniche e località marittime, come la Liguria dove l’ardesia viene prediletta al posto della lavagna – la pietra locale del posto – per via della sua robustezza nel tempo, indispensabile in un luogo di mare. “Ci siamo concentrati sull’Italia – aggiunge il 37enne – ma ci è capitato di mandare del materiale anche in Francia e Svizzera, appena oltre il confine”.
L’estrazione è certamente un’attività impegnativa, anche vincolante sotto alcuni punti di vista. Soprattutto nel periodo invernale, quando bisogna fare i conti con le copiose nevi dell’alta montagna che costringono ad uno stop forzato di tre mesi. “La zona estrattiva, in genere, è raggiungibile soltanto nel mese di maggio ed è possibile lavorarci almeno fino ad ottobre – spiega – Consentendo dunque un’attività complessiva di 8-9 mesi”. 400 metri più a valle, in località Capo Brembo si trova il laboratorio grazie al quale è possibile estendere di qualche mese la lavorazione.
“Creiamo una scorta di materiale lavorabile nel laboratorio: questo ci permette di aggiungere un paio di mesi, novembre, marzo ed aprile – aggiunge Simone – Rispetto al passato, ora siamo fortunati. Un tempo, infatti, la gente partiva il lunedì mattina per raggiungere la cava a piedi e tornava a casa soltanto il venerdì. Ora invece c’è una strada di collegamento, che sicuramente facilita il lavoro”.
Anche la burocrazia ci mette del suo: “Purtroppo si fa una fatica incredibile a livello autorizzativo. Ogni anno migliaia e migliaia di ore e soldi, che potrebbero essere investiti in personale o macchinari, viene invece buttato per gestire una burocrazia infinita. Purtroppo una grossa fetta delle spese ogni anno sono destinate proprio lì. Negli ultimi anni per fortuna qualcosa è cambiato, ma certi procedimenti restano troppo lunghi risultando in una gran perdita di tempo e risorse”.
Per fortuna fra le mille difficoltà, a vincerla sono le soddisfazioni di un’attività che – nel suo piccolo – contribuisce enormemente ad attenuare il fenomeno dello spopolamento che grava sui piccoli paesi di montagna. “Valleve conta meno di 120 residenti – fa il punto Simone – La soddisfazione più grande è continuare a portare avanti e non lasciar cadere nel nulla i tanti sacrifici che sono stati fatti in questi ultimi sessantanni. E contemporaneamente sapere che un’attività come la nostra, grazie al nostro indotto, riesce a supportare anche solo a livello comunale più della metà delle famiglie che ne traggono sostentamento”.
In un periodo storico in cui l’attività turistica si trova di fronte ad una importante crisi, lo “zoccolo duro” della cava resta e continua ad offrire un’opportunità di lavoro per chi abita la zona. “È una vera soddisfazione sapere di riuscire, grazie all’attività, a permettere a tante persone di continuare a restare sul territorio. E a crescere le loro famiglie qui”. Così un semplice pezzo di porfiroide grigio scuro, nascosto fra la roccia calcarea del complesso montano del Monte Pegherolo, diventa risorsa per un’intera comunità. E al contempo diviene testimone dell’ingegno umano, della sua abilità nel trasformare qualcosa apparentemente di poco valore in una ricchezza. “C’è una grande soddisfazione nel vedere l’ardesia passare fra le tue mani e contribuire a qualcosa di esteticamente bello – confessa Simone – Ma anche la soddisfazione di portare avanti i sacrifici di quelle tantissime persone che qui si sono spaccate la schiena per tanti anni”.
Guardando al futuro della Società, a preoccupare Simone è la mancanza: non di materiale estraibile, ma di giovani che vogliano mettersi in gioco per imparare l’arte di questo mestiere, che rischia di estinguersi nel giro di qualche decennio. “In un periodo come questo, un lavoro all’aria aperta come il nostro dove per motivi lavorativi sono già applicate le regole di distanziamento, è paradossale non riuscire a trovare nuove figure disposte a fare questo tipo di lavoro – conclude Simone – Purtroppo è una attività che richiede passione, ma forse sarà proprio la pandemia a generare alcune inversioni di tendenza. Arriverà il momento in cui si torneranno a riscoprire certe attività con un po’ di umiltà, a rendersi conto che il mondo è basato anche su chi materialmente il lavoro lo deve creare con le proprie mani. Forse nessuno ora vuole mettersi in gioco, ma arriverà un momento in cui per forza di cose sarà necessario: qualcuno dovrà sporcarsi le mani, altrimenti le case non crescono da sole, le rocce non si estraggono da sole. Per questo motivo riponiamo tutta la nostra speranza nelle nuove generazioni”.
(Immagine in evidenza di Baldovino Midali)