Nuovo numero della rubrica dedicata alla salute a cura della Farmacia Visini di Almè. In questa nuova puntata il dott. Michele Visini racconta la sua seconda esperienza come farmacista-missionario in Africa.
Lo scorso mese sono tornato in Benin, un piccolo paese dell’Africa sub-sahariana, affacciato sul golfo d’Africa, stretto tra Togo, Burkhina Faso, Niger e Nigeria. Ci sono tornato dopo 7 mesi, partecipando a una missione organizzata da TIME4LIFE, una fondazione umanitaria con cui collaboro da circa un anno e mezzo; avevo per la prima volta conosciuto questa realtà africana a settembre, durante una settimana di intenso lavoro presso la struttura sanitaria denominata “PRIMALUCE”, voluta qualche anno fa fortemente da TIME4LIFE in collaborazione con una ONG locale denominata REGARD FRATERNEL.
Tornato da là avevo provato a parlare di ciò che avevo fatto e avrei voluto continuare a fare, racchiudendo il tutto in una idea: esportare un protocollo di gestione di una “farmacia”, intesa in senso del tutto allargato come punto-salute, non solo un luogo dove reperire i farmaci necessari alle cure….forse può sembrare assurdo, troppo diversa la realtà, troppo lontani i mondi ma soprattutto le culture….eppure, opportunamente riparametrata, la metodologia rivolta alla popolazione può essere sostanzialmente la stessa….perché il vero fulcro è uno solo: prevenire, monitorare, curare, seguire, il tutto declinato a diverso livello a seconda del contesto in cui si cala.
Rispetto alla realtà in cui opero quotidianamente, l’elemento di differenza che maggiormente spicca in un contesto come questo è la lentezza e il ritardo con cui la gente pensa di rivolgersi a personale sanitario e punti di cura: per un occidentale come me che lavora in ambito sanitario appare inconcepibile che una persona conviva con un problema serio, soprattutto se conseguente a un trauma, senza farsi curare; non dimentichiamoci che la strategia principale nel nostro mondo è incentrata sul CONCETTO DI PREVENZIONE, per fare in modo che le problematiche di salute siano intercettate più precocemente possibile al fine di rendere le conseguenze per il paziente meno invalidanti possibile.
Qualcuno mi ha chiesto perché ho deciso di imbarcarmi in questa avventura in paesi lontani: molti anni fa mi capitò di sentire una frase, pronunciata da un missionario salesiano, padre Ugo De Censi, operante in un piccolo villaggio sulle Ande peruviane, rimasta impressa nel cuore e nella mente e che in questa “avventura” di missioni-lampo nei paesi del terzo mondo è diventata la mia luce-guida: se qualcuno ha fame, non dargli il pesce ma insegnagli a pescare. Cosa posso fare io? Insegnare, per quello che so e che posso, a chi deve poter, un domani, camminare da solo.
La costruzione e il mantenimento di un centro nascite come PRIMALUCE in Benin risponde esattamente a questo bisogno e questa filosofia: garantire la tutela e la protezione nel percorso più delicato, anche se al contempo più naturale, per una donna, tutte cose che da noi sono assolutamente scontate ai limiti, in taluni casi, dell’eccesso, mentre qui può fare la differenza tra vivere e morire.
Nei giorni di missione, il centro nascite si trasforma in centro di consultazione di medicina generale, specialmente pediatrico ma non precluso a nessuno: una sorta di CAMPO MEDICO gratuito, durante il quale donne e bambini ricevono visite, farmaci e piccoli omaggi, sotto forma di vestiti, salviette e altro, tutte cose donate con grande cuore a noi volontari da tantissime persone e portati fin qui per poter essere donati.
Siccome tutto il mondo è paese, l’attrattiva del gratuito e garantito porta al centro molte persone che di fatto non hanno alcuna reale necessità, se non quella di sentirsi accuditi: grazie al lavoro in grande armonia e spirito di collaborazione di tutti i volontari, la moltitudine di variopinte donne e bambini viene ogni giorno ordinatamente messa in fila per essere visitata; una delle cose che colpisce subito è la grandissima pazienza con cui tutti, specialmente i bambini, attendono il proprio turno. Le giornate scorrono molto intensamente, in armonia e lavoro, ma ogni tanto ci si ritrova a dover fronteggiare casi delicati che scuotono nel profondo tutti noi, ed in particolare la mia sensibilità di sanitario occidentale.
Mentre scrivo penso in modo particolare ad alcune donne. Senza entrare nel dettagli dei loro casi, ciò che le accomuna è l’essere rimaste a casa, continuando la loro quotidianità, nonostante una situazione di disturbo fisico piuttosto palese. Non è semplice interagire in modo chiaro con queste persone per cercare di appurare in modo chiaro e completo cosa sia accaduto, da quanto il problema si sia presentato e perché non siano state viste prima. Troppe difficoltà di comunicazione, considerando la lingua e le abitudini di un popolo che, soprattutto al femminile, tende ad essere piuttosto chiuso e poco espressivo. Faticosamente ci siamo resi conto che la principale complicazione stava nel fatto che il loro essere donne in un mondo come questo non rendeva il loro problema minimamente interessante, per cui ogni accertamento, ogni passo, ogni intervento ha richiesto il permesso di qualcuno che aveva l’autorità di decidere se potevano essere curate oppure no, e quando.
Noi siamo abituati a cercare di prevenire i problemi prima che siano troppo gravi. Perché allora venire fin qui? Perché forse tra un certo numero di anni le varie Yvette, Ocenni, ecc… non penseranno di chiedere aiuto quando la loro emiparesi facciale dura da un mese o il loro piede ha una piaga profonda larga dieci centimetri con tanto di necrosi, oppure ancora il prolasso della loro parete addominale susseguente a cesareo dura da sette anni e le costringe a vivere con una ernia tanto impressionante quanto pericolosa. E quando accadrà che verranno subito a cercare aiuto e cure, potranno forse trovare persone più competenti e in grado di aiutarle senza allargare le braccia sconsolate perché incapaci di fare qualcosa di utile.
Esportare un protocollo significa condividere conoscenze ma anche uno spirito, che è quello del prendersi cura prima possibile per non arrivare troppo tardi. E allora, ancora una volta, esportare un modello, un protocollo di gestione della salute diventa essenziale per far sì che giorno dopo giorno queste popolazioni possano imparare a muoversi in autonomia, imparando ad intervenire prima e meglio, per evitare di dover poi fronteggiare situazioni non più recuperabili.
Purtroppo in questi giorni in Benin, abbiamo fronteggiato più di una situazione complicata, sia da un punto di vista ostetrico, sia da quello genericamente sanitario: la linea di demarcazione tra salute e malattia, e in alcuni casi tra vita e morte (in questi paesi anche “morte sociale”….una persona menomata rischia di diventare solo un peso inutile per la famiglia spesso in enorme difficoltà per trovare di che sopravvivere), è spesso troppo sottile in paesi come questo.
Sui canali social ciascuno di noi e la fondazione stessa ha provato a raccontare ciò che abbiamo visto; per qualche paziente si è trovata la soluzione, per qualcun altro forse la si potrà trovare, sperando anche nell’aiuto fondamentale dei donatori; per qualcun altro ancora purtroppo la soluzione non c’è….e si può solo accettare la realtà, riflettendo però sul fatto che seminando educazione alla salute e alla sanità, in un futuro più o meno prossimo forse qualcuno cercherà cure e attenzione prima di ritrovarsi con una condizione troppo compromessa. L’ultimo giorno prima di partire abbiamo stilato dei protocolli di intervento per alcuni pazienti che abbiamo seguito nei giorni di permanenza a Gbada; ferite e ulcerazioni vecchie o riacutizzazioni di situazioni pregresse che non siamo stati in grado di risolvere prima della partenza e che i pazienti da soli a casa potrebbero non riuscire a seguire fino a guarigione.
L’idea è stata di lasciare un foglio scritto con le istruzioni da seguire per prendersi cura dei pazienti; inoltre, per insegnare meglio il metodo di lavoro, abbiamo pensato di sfruttare la tecnologia registrando dei video-tutorial (mai come in quest’epoca di pandemia la nostra società si è rivolta ai tutorial di internet per imparare a fare le cose più disparate….quindi perché non esportare anche questo modello???) mentre eseguivamo le medicazioni delle ferite. Al termine dell’ultimo giorno, con le infermiere e la responsabile del centro abbiamo visionato tutto il materiale, sia scritto che video, rispondendo alle domande e chiarendo tutto quanto; tutti insieme abbiamo inoltre preparato i kit da dare ai pazienti per consentire loro di fare le medicazioni tutti i giorni a casa propria, spiegando a ciascuno quando tornare per far controllare lo stato di avanzamento del lavoro dal personale infermieristico.
Non ci illudiamo di aver risolto il problema di salute di queste persone, né che questi espedienti possano rivelarsi fin da subito un successo…..sono un tentativo….semplicemente provare ad insegnare che anche loro, da soli, domani, potrebbero riuscire a prendersi cura gli uni degli altri.