Quella di Silvio Colagrande è una toccante storia d’amore verso il prossimo, forse uno dei più grandi esempi che dal bene non può che nascere il meglio: la sua vita, infatti, è legata a doppio filo con quella dell’ora Beato Don Carlo Gnocchi, che nel giorno della sua dipartita il 28 febbraio 1956 gli ha fatto dono di una delle sue cornee, in un tempo in cui i trapianti ancora non erano possibili nel nostro Paese. Da quel giorno sono passati settantacinque anni. E da allora Silvio vede attraverso gli occhi di Don Carlo, portando avanti il suo messaggio di attenzione e cura nei confronti del prossimo.
Tutto ha inizio nel 1952 a Collefraggio di Sassa, in provincia de L’Aquila, un paesino di poche anime in cui Silvio viveva insieme alla famiglia – papà Amilcare, mamma Rosina e sette fratelli. Aveva circa 8 anni quando, giocando con i compagni di scuola, uno spruzzo di calce viva lo colpisce in pieno volto. “Accanto alla fontana del paese c’era una casa in costruzione, noi bambini prendevamo i blocchi di calce viva che usavano i muratori e li mettevamo in alcuni barattoli colmi d’acqua, per innescare una reazione chimica esplosiva – racconta Silvio – Uno schizzo di questa calce mi ha colpito e nell’immediato non ho visto più nulla”.
Viene trasportato in ospedale a L’Aquila, dove purtroppo non riceve adeguate cure. Così su indicazione di un giovane oculista della zona, viene trasferito al Policlinico di Roma, da cui è uscito pochi mesi più tardi con una diagnosi: la cecità sarebbe durata ancora per qualche anno, dopodiché avrebbe recuperato un poco. Ma non abbastanza per condurre una vita “normale”. Grazie ad un cugino che studiava all’Università di Roma, Silvio viene a conoscenza dell’opera di Don Carlo, che nel dopoguerra dedicò le sue cure ai “mutilatini” ed ai piccoli invalidi di guerra e civili, fondando per essi la Fondazione Pro Juventute che disponeva di una vasta rete di collegi in molte città d’Italia.
Parte così alla volta di Inverigo, in Provincia di Como, dove frequenta la terza elementare. E dove incontra per la prima volta Don Carlo in persona. “Era venuto in visita al centro, l’ho conosciuto lì – racconta – Ero distante solo qualche metro da lui. Era uscito nel cortile, c’erano tutti i ragazzi che lo avevano accerchiato. Mi ha scrutato per bene: io sentivo questa sensazione, sentivo che mi stava scrutando. Aveva lo stesso viso che risulta anche in certe sue fotografie, era sorridente, cristallino, ma non ha detto una parola. Dopo cinque minuti ha preso in braccio il più piccolo di noi, e se n’è andato. Un paio di settimane più tardi Don Renato Pozzoli, che era il vicedirettore del centro, mi porta a Milano in visita al Professor Galeazzi, nel suo studio privato”.
Il medico, però, è laconico: serve un trapianto, che in Italia non era ancora normato. Bisognava guardare oltre i confini nazionali, puntare alla Svizzera. Un’opportunità che sembra sull’orlo di concretizzarsi nell’estate del 1955, dopo che Silvio viene trasferito al centro di Roma in cui impara a leggere e scrivere in braille: l’operazione si può fare e verrà assistito dalla Croce Rossa Italiana, ma c’è bisogno dell’autorizzazione dei genitori. Un’autorizzazione che, però, non fu più necessaria: dopo una visita di Don Carlo al centro romano, il trasferimento fu annullato a causa di alcuni problemi insorti.
“A dire la verità, anni dopo, mi fu rivelato che è stato lo stesso Don Carlo a bloccare il tutto. Probabilmente aveva già nei pensieri l’idea del trapianto – racconta Silvio – L’ho visto ancora una volta, durante una visita al Centro di Roma. Gli sono passato vicinissimo, quasi a sfiorarlo. Ma capivo che non stava bene, quel viso che avevo visto ad Inverigo era molto più triste, affilato, magro. Anche quella volta non mi disse nulla. A febbraio del 1956 eravamo a conoscenza che Don Carlo fosse malato, ma non sapevamo in che misura, né di cosa”. Il 27 febbraio, il professor Cesare Galezzi – colui che, due giorni dopo, si occupò dell’intervento – giunse a Roma per visitare i piccoli ospiti non vedenti. “Una volta arrivato a me, con il suo vocione disse di farmi partire subito. Io non capivo – prosegue – Piangevano tutti, le suore mi preparavano la valigia con della biancheria, e ad accompagnarmi c’era il maestro di musica”.
Una notte in treno per raggiungere Milano, e Silvio viene ricoverato al Pio Istituto Oftalmico (oggi Azienda Ospedaliera Fatebenefratelli) dove viene sottoposto a visite ed esami. “Era il 28 febbraio – ricorda – E ho sentito per la prima volta dalla radio di una delle camere che Don Carlo era morto. Nessuno, chiaramente, mi aveva detto nulla”. La mattina del 29 febbraio viene portato in sala operatoria, in una sorta di “semiclandestinità” dal momento che – allora – i trapianti ancora non erano autorizzati. Don Carlo, da sempre devoto al prossimo, anche in punto di morte aveva deciso di donarsi, permettendo a due bambini bisognosi di ricevere le sue cornee. E uno di quei bambini era proprio Silvio Colagrande.
“Sono rimasto immobile a letto per molto tempo – ricorda – In quel periodo sono successe diverse cose. Ad esempio l’allora arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini, venne a farmi visita e a benedirmi in fronte”. Poi ecco che arriva un ulteriore dono: una medaglietta d’oro, con una effige di Cristo da un lato e delle parole dall’altro, che recitavano: “Sono la massima reliquia di Don Carlo Gnocchi, rendo gloria a Dio in onore della Scienza”. “L’ho sempre portata addosso – confessa Silvio – ed è stata il mio riferimento per capire che significato avesse questo dono per me. Sono parole che mi sono rimaste completamente impresse nell’animo”.
Da allora è tutto un susseguirsi di eventi: la cornea ha subito il normale danno di vascolarizzazione dovuto alla calce, ma dopo diversi mesi Silvio viene dimesso con 2,60 decimi. Quello che apparentemente sembrava un insuccesso, gli ha in realtà permesso di condurre una vita completamente normale. Silvio frequenta la scuola media a Roma, poi si diploma al Liceo Linguistico Internazionale presso il Centro S.Maria Nascente di Milano e successivamente ottiene la maturità magistrale a Salerno presso l’Istituto Magistrale Regina Margherita, laureandosi infine in lingue e letterature straniere all’Università Bocconi di Milano.
“Leggevo, leggevo e studiavo tutto il giorno, perciò quei 2,60 decimi a me hanno reso tutta la vita – commenta Silvio – Ad un certo punto, mi sono posto il problema se valesse davvero la pena che intraprendessi un’altra strada. Ho pensato quindi di restare, cercando di fare qualcosa nell’opera di Don Carlo, mantenendo il suo spirito, questa qualità di fondo di fare attenzione alle persone. Ho scelto di restituire quello che ho ricevuto. E ci ho lavorato per 43 anni”. Silvio, infatti, è stato vice direttore della Fondazione Pro Juventute Don Carlo Gnocchi di Inverigo – la stessa che ha frequentato da bambino – dedicando tutta la vita ad aiutare il prossimo. Nel tempo diventa poi segretario del Presidente della Fondazione e per sedici anni è direttore del Centro di Inverigo.
Parallelamente svolge una continua attività di testimonianza per diffondere la conoscenza della figura di Don Carlo Gnocchi, attraverso anche le organizzazioni AIDO e i Gruppi Alpini di più Regioni. Ora è in pensione, ma continua a divulgare il pensiero di Don Carlo tenendo una trasmissione in collaborazione con Radio Mater. “Ho sempre sentito questo legame – racconta Silvio – Mi ha sempre dato il riferimento per quello che ho cercato di fare in vita, seguendo anche un concetto educativo che mi è stato insegnato proprio ad Inverigo. Il pensiero va sempre all’altro, all’attenzione verso il prossimo, all’altruismo. Il mio unico cruccio è stato non aver potuto avere mia mamma più vicina: già quando ero bambino era ammalata, ed è scomparsa all’improvviso mentre frequentavo la prima media. Spero sia felice di ciò che ho fatto”.
Dalle parole di Silvio traspare una personalità genuina e attenta, che incarna la stessa filosofia che muoveva anche l’opera di Don Carlo Gnocchi. “Ho sempre cercato di realizzare quell’atteggiamento, quello stesso comportamento che aveva lui verso chi aveva più bisogno – conclude – Bisogna fare le cose del quotidiano come se fossero straordinarie, questo è ciò che ci diceva. Ma ovviamente ho sempre pensato con la mia testa: devono essere gesti che nascono dentro di noi, in primo luogo. Ciò che ho fatto per me è stato naturale, proprio per questa ragione, per questa volontà di non abbandonarmi ai pensieri degli altri ma cercando sempre i miei. Ovviamente arricchendo tutto il contorno, perché la cultura mi ha insegnato tanto ed è bella soprattutto quando la si può inserire anche in quelle piccole cose quotidiane”.
(Immagini in evidenza: silviocolagrande.it)