Quel pianto di bambino alle pendici dell’Alben

La leggenda narra che nelle giornate di pioggia, fra le fronde dei fitti boschi alla pendici del Monte Alben, sia possibile udire il pianto inconsolabile di un bambino, accompagnato dalla ninna nanna della sua mamma. Il fenomeno ha una spiegazione ed è legato ad un grottesco episodio avvenuto proprio in quelle zone parecchi anni prima.
3 Febbraio 2022

La leggenda narra che nelle giornate di pioggia, fra le fronde dei fitti boschi alla pendici del Monte Alben, sia possibile udire il pianto inconsolabile di un bambino, accompagnato dalla ninna nanna della sua mamma che cerca – seppur invano – di farlo calmare e addormentare. Il fenomeno, secondo il racconto di alcuni residenti, ha una spiegazione ed è legato ad un grottesco episodio avvenuto proprio in quelle zone parecchi anni prima.

A quei tempi, il boscaiolo oppure il carbonaio erano attività comuni per gli abitanti di Serina e dei paeselli limitrofi. Uno di questi viveva con la propria moglie ed il figlio da poco nato in una baita, che si trovava in una località detta “Caàgna róta”. Era un uomo burbero e violento, che passava gran parte del suo tempo alle prese con robusti alberi da abbattere per alimentare il grosso poiàt (cumulo di legna e terra necessario per la trasformazione in carbone) fumante al centro della aiàl (lo spiazzo per la produzione di carbone) che si trovava nei pressi della baita. Soltanto in quei frangenti la povera madre e il suo bambino avevano un attimo di pace.

Dal momento che doveva costantemente tenere d’occhio il poiàt, l’uomo non aveva tempo di stare a lungo in casa. Vi entrava solamente per due cose: mangiare, e rimproverare la moglie se il cibo non era ancora pronto oppure se non era di suo gradimento. Il carbonaio non aveva un attimo di riposo, fra gli alberi da abbattere, i ceppi da spaccare e ridurre in carbone: stanco dal lavoro e dalla vita, la povera donna che era con lui doveva badare bene dal disturbarlo quelle poche volte che si appisolava appoggiando la testa sul tavolo, dopo aver trangugiato polenta e stracchino e aver tracannato diversi bicchieri di vino.

Una sera, purtroppo, la vicenda si tinse di toni macabri e grotteschi. Il manesco, tornato alla baita dopo una disastrosa giornata di pioggia, invece della cena pronta in tavola trovò la moglie intenta a cullare il figlioletto, che si lamentava e piangeva a causa di forti dolori di pancia. L’uomo, improvvisamente, impazzì mostrando una folle natura che – fortunatamente – non trovava riscontro nel resto degli operosi e generosi montanari della Valle Brembana.

Il boscaiolo, irritato dalla moglie che non gli prestava attenzione e dal pianto del bambino, perse la ragione e fu assalito da una collera incontrollabile: prese il bambino, uscì dalla baita urlando e lo gettò nella bocca del poiàt. La stessa sorte toccò alla donna, che venne scaraventata nel poiàt dopo essersi avventata contro il carbonaio impazzito nel tentativo di strappare il figlio dalle sue braccia.

Resosi conto dell’orrendo gesto che aveva fatto, l’uomo si mise a correre nel bosco urlando e invocando i nomi della moglie e del figlio che aveva appena ucciso. Fu trovato qualche giorno dopo, morto in fondo ad un burrone. La montagna, forse commossa dall’atrocità consumatasi sotto i suoi occhi, avrebbe così deciso di conservare per sempre il ricordo di quel grande dolore di una mamma con il suo bambino, permettendo alle loro voci disperate di riecheggiare fra le fitte fronde del bosco per l’eternità.

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(Tratto da: “Storie e Leggende della Bergamasca” di Wanda Taufer e Tarcisio Bottani, Ferrari Editrice)

(Foto: MatthewGhera via Wikimedia)

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