Questa è la prima puntata della rubrica “Vi racconto una fotografia” curata da Filippo Manini, musicista valdimagnino, direttore del Coro CAI Valle Imagna, compositore, educatore, amante della sua terra e da qualche anno appassionato di fotografia (qua il suo profilo Instagram se volete vedere i suoi scatti). Buona visione e lettura!
Qualche mesetto fa pioveva ancora. Bei tempi, direte. Quelle belle piogge di aprile che ingravidano prati e boschi e sanno di muschi e resine. Primavera, domenica pomeriggio di bruma e pioggia, il tempo perfetto per me per far fotografia. Forse la maggior parte di voi ama quelle belle foto fatte in giornate terse, col sole che ride e i verdi che brillano. Io no. Ho una spiccata propensione a quando il meteo volge al peggio. Son fatto così. Mi son fatto l’idea che forse amo fotografare le tenebre per esorcizzare i miei lati oscuri. Del resto, se la fotografia non racconta di sé, a che serve?
Mi piace andare a cercare scorci della mia valle per ritrarli dando un mio tocco personale. Sono posti che magari si è visti un milione di volte e che cadono nel rumore bianco dell’abitudine. L’abitudine è una brutta bestia. Ti struttura da un lato, ti uccide dall’altro. Allora, ogni tanto, serve un acquazzone, che la lavi via, e faccia riemergere l’essenza. Giornata perfetta quindi.
Tra i numerosi soggetti fotografici che ho in lista figurano i ponti pedonali della valle. Ed è da quando ho preso casa al Grumello del Becco che ho in programma il Ponte del Gandino. Così, prendo zaino, macchina fotografica e treppiede e me ne scendo per la mulattiera che va da Cilipiano a Selino Alto. Da Cilipiano ci vorrà si e no un quarto d’ora per arrivare al ponte. Mi godo le gocce d’acqua fresca in faccia e i profumi di bosco; intanto la mente comincia a elaborare le pose.
Ora, come lo fotografi un ponte? Puoi fotografarlo in mille modi, ovviamente. E ovviamente io ho scelto il meno comodo da scegliersi durante una giornata di pioggia. Il ponte del Gandino è ancorato agli estremi di una forra nervosa che accompagna il torrente a cascare in una splendida conca di schisti neri e oro. Marchio di fabbrica valdimagnino. La cosa curiosa è che a monte del ponte, dopo una doppia cascatella, il Gandino percorre per una cinquantina di metri un tratto del tutto pianeggiante, che puoi attraversare tranquillamente a guado. Quindi, sopra hai un comodo rivolo alpestre. Sotto, un budello infernale. E io proprio questo voglio fotografare.
Tra l’altro mi chiedo: ma invece di scavalcare faticosamente la forra, perché mai gli antichi non hanno pensato di fare un attraversamento agile in quel punto meno impervio? Be, è molto semplice: perché non sarebbe stato altrettanto spettacolare. Sì, ma vai a fotografarlo quello spettacolo…Fatta eccezione per il bungee jumping – emozionante ma per me poco salutare – l’unico modo per arrivarci è proseguire un po’ oltre il ponte e poi infilarsi giù per il bosco. Diciamo che “infilarsi giù” non rende al meglio la mia scivolata effettuata lungo il pendio fino al greto del torrente. Scivolata controllata s’intende. Stiamo parlando di alto professionismo. Scomposta, ma controllata. Ok, ci sono arrivato con le chiappe a terra.
In ogni caso, eccomi lì in mezzo a quello splendido teatro naturale. Le vene di “renada” creano un punto di fuga perfetto fino alla cascata sotto il ponte. Per terra un tappeto di aglio orsino che decido di sfruttare come primo piano. È uno scenario talmente affascinante che me ne rimango lì una buona mezz’ora ad osservare, mentre ascolto l’acqua che se ne scende dalla forra, dal cielo, dalle foglie. Poi scatto. E mi viene in mente la storia che mi ha raccontato il Piero Invernizzi.
Che se ne era venuto anche lui qualche anno fa per fare una foto al ponte. E il ponte era ancora fatto di pietra a secco. Quando mi disse questo particolare gli brillavano gli occhi. E si può capire, sapendo cosa significhi per lui la pietra. Si portò la sua macchina, ancora analogica, fece un sacco di foto. Poi se ne tornò a casa. Quando aprì lo sportello per estrarre il rullino però vide la scena che è uno degli incubi dei fotografi analogici: la macchina non aveva agganciato il rullino. Rullino intonso, niente negativi impressi. Posso solo immaginare il rosario di benedizioni che salì dal profondo. Tutto da rifare. Ma non riuscì più a tornarci per tempo, purtroppo. Perché nel frattempo restaurarono il ponte, inserendo un buon quantitativo di calcestruzzo. E a lui, del ponte tenuto insieme col calcestruzzo, francamente, non fregava più niente. Gli bastarono quelle foto che rimasero scattate solo nel mirino della sua analogica. E, ancor di più nella sua testa. Che andava a cercare ancora una volta l’anima della pietra.
Ah sì, la foto? Eccola!