Tre Cime di Lavaredo? No, ma in Valle Imagna abbiamo il “Dente della Tisa”

Si parla tanto delle Dolomiti, e anche noi ce le abbiamo proprio sopra la testa, solo più discrete. Ecco il Dente della Tisa a Fuipiano Imagna
12 Ottobre 2022

Nuova puntata della rubrica “Vi racconto una fotografia” curata da Filippo Manini, musicista valdimagnino, direttore del Coro CAI Valle Imagna, compositore, educatore, amante della sua terra e da qualche anno appassionato di fotografia (qua il suo profilo Instagram se volete vedere i suoi scatti). Buona visione e lettura!

La prima domenica di ottobre eravamo ad Arnosto con la Combricola (Coro CAI Valle Imagna) a cantare in occasione della consueta castagnata autunnale. Il dopo concerto è sempre un momento interessante, perché sciolta qualsiasi tensione legata alla performance si diventa ciaciaroni e, complice il calice di rosso, si parla della qualunque. Potere catartico della musica che scalda i cuori e permette all’anima di evacuar miserie, anche solo temporaneamente.

Insomma, tra i coristi è partito il classico gioco a chi la sapeva più lunga. Stavolta l’oggetto del tenzone riguardava le terre alte di Fuipiano. La Piazza, Valmana, il Grassello e via dicendo. Lo Stefano Locatelli mi tira fuori un’antica contrada perduta, sita sopra la Piazza, dove il sentiero che sale a Valmana esce dal bosco e si spiana, prima di riprendere erto fin su al passo. Non se ne ricorda il nome, ma la cosa mi affascina. Dovrò documentarmi.

Poi, nel tentativo di prenderlo alla sprovvista, punto il dito verso le rocce dritte sopra le nostre teste. “E quelle?” chiedo con la malizia di chi sa già la risposta e sa che sta per rivelare un segreto che nessun altro può sapere. “Pota, chéla l’è la Tisa!” mi dice, neutralizzando in toto l’effetto sorpresa cui aspiravo. Ingenuo io, a pensar di farla sotto il naso ad uno d’altra generazione. Ma del resto avevo scoperto veramente da poco l’identità di quel luogo, e del mio segreto ne andavo fierissimo. Che poi, a dirla tutta, la Tisa vera e propria è in realtà situata sopra gli speroni rocciosi. La Tisa è quell’ampia apertura prativa che sta sotto i Canti, a sud della spaccatura tellurica che si apre come una valle di rift appena sotto la celebre Madonnina degli Amici di Peghera.

Sul nome dei contrafforti rocciosi che la sostengono, invece, nulla si sa. Dicevo che ho scoperto da poco l’identità della Tisa. E grazie ad un “amico di penna” elettronica. Nell’autunno del 2020 mi scrisse su Instagram un certo Marco Meroni di Calusco. Nello specifico avevo pubblicato uno scatto del Resegone, che io credevo fosse in Val Comera. Lui si complimentava per lo scatto, ma mi faceva notare che quella non era la Val Comera, bensì la Val Caldera. Lo presi subito in simpatia, perché una puntualizzazione del genere mi fece subito pensare ad uno che sapeva il fatto suo sull’argomento. Ne nacque un carteggio (elettronico, ma a me piace pensare romantico) che va ormai avanti da mesi. Ci scambiamo informazioni su tutto ciò che riguarda geografia e topografia storica locale. Una delle dissertazioni che rimane aperta da un po’ riguarda proprio il pascolo della Tisa.

E ci sembra strano davvero che i contrafforti che la sostengono non abbiano un loro nome specifico. Lì intorno ci sono il Pralongone, con lo Zucco omonimo, il Bosco della Torre, di cui fan parte i mitici Tre Faggi; poi ci sono i Canti, la Tisa, appunto, poi il Passo del Grassello. Possibile che questi bellissimi torrioni dolomitici non abbiano un loro nome? Andando in cerca di antiche mappe, mi sono imbattuto in una carta europea del XIX secolo, sulla quale in quella zona viene segnalata la “Costa della Paglia” (che ora sappiamo divenuta “Palio”) e delle vaghe ma altisonanti “Torri di Pralongone“. Tutto gasato, raccontai la cosa a Marco, che tuttavia mi fece notare la cospicua distanza del Pralongone da quella zona. E se quel “Torri” facesse riferimento invece alla torre di guardia che viene riportata su certe carte e che si trovava più a est, nella zona dello Zucco di Pralongone? Insomma, non se ne veniva a capo.

Nel mentre che la dissertazione a distanza continuava, a più riprese sono andato ad esplorare la zona. La prima volta salìi a maggio 2021 da una deviazione del sentiero che sale al passo del Grassello. Preannunciata da castelli calcarei nascosti tra i faggi, appena superato il bosco mi trovai di fronte la mole del torrione in tutta la sua poderosità. Scattai qualche fotografia ma nulla di veramente interessante perché le condizioni di luce non erano un granché. Ero piuttosto in fase esplorativa. Aggirata poi sulla destra la torre, mi ritrovai a gattonare su per un’erta di sfasciumi, arrivando poi alla sella che separa la torre dalle rocce soprastanti, non meno affascinanti. Prima mi diressi a sinistra sulla cima della torre, ammirando la vasta conca ellittica della valle sotto di me. Poi me ne tornai alla sella e di lì, lasciando a destra il canale di sfasciumi, entrai in un labirinto dolomitico talmente bello da far perdere l’orientamento dello spazio e del tempo. Ci girai nel mezzo per tutto un pomeriggio..

Mi venne alla mente un racconto del Maestro, il Costantino Locatelli, letto tempo fa su uno di quei bellissimi volumi del Centro Studi. Parlava del Carlo Beàra, boscaiolo e carbonèr di Catianóm, che una notte, dopo essersi attardato sulle pendici del Pralongone per sistemare il poiàt, se ne scese per tornare verso casa, ma perse l’orientamento, lui, esperto dei boschi di casa sua, e girovagò tutta la notte fino all’alba, quando il suono dell’Ave Maria del campanile di San Giovanni a Fuipiano lo accolse nella sicurezza di luoghi familiari. Fu talmente scosso dall’esperienza senza farsene una ragione che se ne andò in confessione dall’allora prete di Locatello. E questi gli raccontò che certi spiriti maligni, dopo gli esorcismi, finiscono confinati su per gli anfratti rocciosi, e nelle notti continuano ad agire…

Forse perché ancora notte non era, il mio girovagare finì invece sopra il dedalo di rocce, precisamente sulla Tisa, e di lì continuai per il sentiero che scende ai Tre Faggi. Talmente fui ammaliato dal luogo che vi tornai più volte. E finalmente, a inizio 2022 riuscìi ad ottenere uno scatto degno, sul volgere di una giornata di nebbie basse, mentre il tramonto filtrava da ovest. E questo è lo scatto che vi racconto oggi.

Quel giorno avevo essenzialmente tre pensieri. Il primo, mosso da una sorta di veemenza campanilistica, che si parla tanto delle Dolomiti, e che ce le abbiamo proprio sopra la testa, solo più discrete. Il secondo, che il fatto che ‘sto posto non abbia un nome è davvero strano (con Marco siamo arrivati ad elaborare un Dente della Tisa, che ve ne pare?), come strano è pure il fatto che rimanga fuori da qualsiasi collegamento escursionistico. Anche se, a dirla tutta, credo che questo sia pure un bene.

Perché – e qui venne il terzo pensiero – questo posto può mantenere così un’essenza di arcano. Le terre alte di Fuipiano, pur ampiamente antropizzate, conservano tutt’ora un alone di fascino e mistero, a partire dagli emblematici Tre Faggi e il loro cromlech, fin su alle torri di pietra della Tisa, annidate tra le centenarie foreste di faggio. E se dopo aver letto questo mio racconto e visto il mio scatto venisse la voglia di andar per boschi e sfasciumi dolomitici ad ammirare il Dente, pensate al Beàra e fugate gli spiriti malvagi avvicinandovi alla roccia con devozione, contemplazione e rispetto; perché è un pellegrinaggio alle radici della nostra terra, e, alla fine, dialogando con essa, un ritornare a sé stessi.

Ecco la foto

DSC 5129 Pano bis 1 - La Voce delle Valli

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