Nuova puntata della rubrica “Vi racconto una fotografia” curata da Filippo Manini, musicista valdimagnino, direttore del Coro CAI Valle Imagna, compositore, educatore, amante della sua terra e da qualche anno appassionato di fotografia (qua il suo profilo Instagram se volete vedere i suoi scatti). Buona visione e lettura!
“E mi pare ancora d’esser là alla finestra di quel confortevole albergo, posto quasi in grembo a una rupe, dove vedeva ritte di fronte le brulle vette dell’Albenza, sorrette da pareti verticali di nudi strati calcarei, quasi da ciclopico muraglione”.
Ogni tanto mi piace rileggere la prosa dell’abate Stoppani, un po’ perché con quello stile un po’ (un po’ tanto, invero…) ridondante mi rimanda indietro nel tempo (e mi sollecita i neuroni specchio, tant’è ch’io principio a scriver come lui, ohibò), e un po’ perché nel suo narrare si percepisce un amore autentico per la natura che descrive. Amore che forse lo fa un po’ anche esagerare (che poi è proprio dell’amore, sennò, se non è “esagerare”, che amore è?).
Questo passo è tratto dal suo Il Bel Paese, libro in cui descrive le meraviglie naturali d’Italia, e che fosse per me ripristinerei come libro didattico nelle scuole. Il libro non è diviso in capitoli, bensì in “serate”, nelle quali lo Stoppani racconta delle sue spedizioni ad un manipolo di nipotini curiosi radunati attorno al camino. Nella Serata VIII racconta, guarda un po’, della Valle Imagna. L’albergo di cui parla nel passo citato è l’antico Albergo Ippocastano di Pontegiurino, purtroppo raso al suolo anni fa per far posto ad un condominio. Mi ricordo la lapide in facciata che citava la permanenza dello Stoppani, che fortunatamente è stata integrata su quella del nuovo stabile. L’ippocastano pure c’è ancora, e fortunatamente ancora resiste.
Bene, in tutto ciò, la descrizione dello Stoppani mi fa sempre un po’ sorridere perché, dalle parole altisonanti che usa, sembra l’albergo avesse di fronte la nord dell’Eiger. In effetti, nell’800 l’aspetto della valle era decisamente meno boscoso (senza andare così indietro nel tempo, basta vedere le gelatine del Battista Mazzoleni degli anni ‘20 o ‘30), quindi tutte quelle belle formazioni dolomitiche che coronano la terra d’Imagna svettavano con maggior vigore scenografico. Tuttavia, io i “ciclopici muraglioni” tenderei a ridimensionarli.
Senza nulla togliere al bell’Albenza, ovviamente. Che a livello geologico rimane pur sempre un prodigio da ammirare. Un esempio su tutti: la meravigliosa piega geologica visibile sul versante sud che disegna un’onda di roccia proprio sotto la cima del Linzone. La costiera dell’Albenza è unanimemente ritenuta il nostro terrazzo sulla pianura Padana da un lato e sull’arco alpino dall’altro; lo sguardo può correre dall’appennino al Monviso, al Rosa, all’Adamello, può scorgere la madonnina del Duomo di Milano; con poco sforzo regala la visione di spazi infiniti che riempiono gli occhi e lo spirito. Tanto più se ci sono condizioni buone. Come quelle che trovai un giovedì sera dell’inverno scorso.
Avevo poco tempo a disposizione per cui avevo optato per un giro veloce al Linzone, ed è andata a finire che mi sono ritrovato in una congiuntura meteo e astrale decisamente singolare. Da sotto era tutto nuvolo e poi, all’altezza di Roncola, nebbie. Che arrivato a Brodelli cominciavano a muoversi. Primi spiragli azzurro arancio di sole. Ottimo, penso. Al valico di Valcava era già tutto aperto, e, sotto, mare di nebbia. Esattamente come sta accadendo in questi giorni. L’inversione termica regala meraviglie.
Il difficile di fotografare in spazi così aperti è comporre un paesaggio interessante che non sia solo una classica foto-cartolina. E sul Linzone in tal senso il rischio è sempre dietro l’angolo. Ipnotizzato dal mare sottostante iniziai a percorrere la cresta sotto lo sguardo vigile delle antenne, che mi hanno sempre suscitato sentimenti contrastanti: a livello naturalistico sono piacevoli come due dita negli occhi; tuttavia, fin da quando ero bambino mi hanno sempre dato la sensazione di una base spaziale, una sorta di faro cosmico, un ponte di comunicazione verso altri mondi.
Passate le antenne, il tempo stringeva, e il sole iniziava a tuffarsi nel mare di nebbia. Dovevo sbrigarmi, se volevo ricavare uno scatto un po’ interessante. Mi ritrovai ad un tratto al bàrech che divide le due anticime del Linzone. Potevo utilizzare quello come soggetto ma non era direzionato come volevo io, ossia dritto controluce. Guardandomi in giro, ormai rassegnato a fotografare un bellissimo ma anonimo mare di nebbia, mi accorsi di una fila di pietre giganti che non avevo mai notato. Mi venne alla mente un sentiero megalitico che andava dritto verso il sole. Che fossero rocce appartenenti alle ciclopiche muraglie viste tanti anni fa dallo Stoppani? Chi può dirlo. Composi e scattai. Il sole era proprio agli sgoccioli, poi in pochi secondi se ne scese e divenne tutto arancio e viola sul mare di nebbie. Continuavo a guardare verso ovest ipnotizzato da tanta bellezza. Feci qualche scatto in lunga esposizione al Monviso che emergeva come un’isola misteriosa e cominciai a mettere via macchina, cavalletto e obiettivi. Fu allora che mi girai in direzione est. E cosa vidi? La luna era sorta dritta dietro l’Alben. Vuoi non scattare anche al plenilunio sopra il mare di nebbia? Fu un attimo. Mi maledissi, che se fossi stato più accorto l’avrei colta proprio mentre spuntava all’orizzonte. La morale è che è sempre bene guardarsi le spalle.. si sa mai che può accadere.
Quindi questa volta gli scatti sono due, d’obbligo. Per raccontare di una congiuntura astrale che mi regalò il Linzone, dell’occidente che accoglie l’oriente, nella figura della luce maggiore che muore e la minore che nasce, al di sopra delle nebbie, sospeso sulle pareti verticali e i muraglioni ciclopici che fecero sognare tanti anni fa il buon Stoppani. (Per chi volesse dare una sbirciata a Il Bel Paese, in rete grazie a Google Books è integralmente accessibile. Qui un link per consultarlo.