Articolo estratto da “Quaderni Brembani n.21” a cura di Eleonora Arizzi.
Ha raccontato la Valle Brembana sia a generazioni di bambini curiosi e assiepati tra i banchi di scuola, sia tra le pagine del giornale. Maestro e giornalista, Sergio Tiraboschi è nato a Zogno il 5 luglio 1936 nella stessa casa in cui vive attualmente con la moglie Manuela, a due passi – sarà una coincidenza? – dal Museo della Valle.
Testimone instancabile di ogni avvenimento vallare con un amore viscerale per Zogno, Tiraboschi ha due figli, Marta e Siro, ed è stato per 33 anni maestro di scuola elementare e a partire dal 1976 scrive articoli per il quotidiano provinciale L’Eco di Bergamo. Sigaro in bocca, sguardo severo con una battuta cordiale sempre pronta, alpino e cacciatore, di lui si farebbe prima a farne un ritratto che a scriverne la biografia: sono infatti poche le informazioni che si lascia scappare per poterla ricostruire, perché «ti parlo della Valle Brembana, mica di me» è stata la premessa di una lunga intervista.
La scuola in Valle dagli anni Cinquanta
Il primo giorno da maestro è stato nel 1955, proprio nella sua Zogno. Esisteva il Circolo didattico di Zogno al quale facevano capo Sedrina, Brembilla, Ubiale, Algua ed altri: ogni frazioncina aveva la sua pluriclasse e quindi erano più di 90 classi sparse su un territorio vastissimo. «Mi chiamavano alle 8 di mattina e inforcavo la mia bicicletta, perché non c’erano le strade. All’inizio se si trattava di pochi giorni di supplenza non mi pagavano, ma andavo perché mi faceva punteggio».
Dopo gli studi magistrali all’Istituto Secco Suardo di Bergamo e 18 mesi di servizio militare negli Alpini in due realtà diversissime, ma da lui amate come Napoli e la Carnia, ha inizio la sua carriera scolastica. Tanti i paesi e le contrade della media Valle nei quali, anche solo per qualche giorno, ha svolto il servizio da insegnante nei primi anni di supplenza. Come quella volta a Catremerio: «Per avere il doppio punteggio era consigliato risiedere nella scuola, quindi quella mattina sono salito col materasso in spalle. Avevo cinque bambini in aula ad aspettarmi, ma ho dormito lì solo la prima notte perché cosa facevo lì da solo tutto il giorno appena ventenne?».
Il lavoro del maestro è stata una vera e propria missione per lui. «Facevo anche da postino o qualche commissione per la gente del posto che magari dalle contrade o dalle Valle Serina a Zogno non scendeva mai. Le persone erano riconoscenti, come una volta da Rigosa mi avevano regalato un cestino di uova e uno di noci ma, scendendo in bicicletta con una collega sulla canna, mi sono caduti lungo gli orridi e non sono mai arrivati a casa. Un’altra volta, in pieno inverno, in una delle tante scuolette nelle contrade di Zogno, un’alunna era assente da una settimana per mal di pancia quindi ero andato a casa sua, prima dell’inizio delle lezioni, per vedere come stava e la famiglia mi aveva detto che il medico non era mai arrivato perché nevicava. Avevo allora chiesto al parroco di stare con la classe mentre io e uno zio della bambina l’abbiamo portata in clinica a San Pellegrino: aveva un’appendicite avanzata. L’abbiamo salvata in extremis».
Racconta sorridendo, invece, come da grande appassionato di caccia gli sia capitato di cacciare di prima mattina mentre saliva lungo il sentiero per raggiungere una delle tante scuolette di montagna. A volte il bottino l’ha dovuto condividere con il parroco del luogo, altre con la direttrice che passava in visita. Le prime supplenze di lungo termine portano il giovane maestro Sergio lontano dalla sua Valle Brembana, a Casnigo. «Mica stavo a vivere in Valle Seriana! Facevo avanti e indietro tutti i giorni. Prendevo il treno fino a Bergamo, poi il cambio in stazione
che mi portava a Vertova e da lì c’era il pullman per Casnigo. Partivo alle 5,30 da casa e rientravo alle 15,30, se non perdevo le coincidenze».
Nel 1964 vince il concorso per il ruolo e per cinque anni la sua destinazione è stata Filago, nella bassa bergamasca: lontano dalla sua amata Valle, 42 bambini in classe e la novità di alunni immigrati. «Andavo al lavoro in moto e il rientro era sempre un disastro per via del traffico. Avevo deciso di non dare il compito a quella classe perché la maggioranza non lo faceva. Alcuni genitori non li ho mai visti e non firmavamo nemmeno le pagelle. Li ho portati dalla prima alla quinta e poi appena ho potuto sono rientrato in Valle, anche se lì mi trovavo bene con i colleghi e uno mi ricordo che era anche sindaco».
Dopo Filago, cinque anni a Poscante, quattro ad Ambria e il resto nella sua Zogno. «Ho avuto dei direttori che mi hanno dato fiducia e mi lasciavano lavorare liberamente. I metodi che utilizzavo? Il dialogo e l’ascolto. Sì poi veniva l’alfabeto e i calcoli, ma i bambini hanno bisogno di parlare e di essere ascoltati. Ho fatto parlare anche un bambino che non parlava mai con nessuno: era una classe bella vivace, a dir la verità, quindi lui era sempre vicino a me alla cattedra e un giorno in terza elementare ha cominciato a parlare. Era un bambino in procinto di essere adottato e sono venuti anche gli assistenti sociali a chiedermi come avevo fatto e quali strategie didattiche avevo utilizzato. Io dicevo loro che l’avevo semplicemente coinvolto nel dialogo in classe, ma non mi hanno mai creduto».
Un maestro a volte rigido nella didattica ma grande osservatore dei bisogni dei bambini, soprattutto dei più fragili. «L’unico compito che mi sentivo di dare era quello di leggere e leggere, ma nelle vacanze non l’ho mai dato altrimenti che vacanze sono? Il lunedì mattina, ad esempio, non iniziavo la lezione senza prima chiedere cosa avessero fatto il fine settimana». Una classe che porta nel cuore? «Sicuramente quella grazie alla quale ho capito per la prima volta cosa sia la disabilità. Quel quinquennio è stato uno dei miei preferiti: c’era con me la collega Maria Teresa Martinelli, era preparatissima, e mi ha dato una mano nella gestione di un ragazzino con una disabilità grave. Ricordo che tutte le mattine avevamo incaricato tre o quattro compagni che a turno lo aiutavano e questa esperienza è stata molto importante anche per loro»
Fiere, sport e alluvione: la cronaca di una Valle dalla fine degli anni Settanta.
Il primo articolo per L’Eco di Bergamo è del 1976 e ancora oggi capita di leggere qua e là la firma “Sergio Tiraboschi”. «Me l’aveva proposto mio cognato, Gianmario Colombo, io non volevo ma l’allora direttore monsignor Andrea Spada mi ha convinto. Sono sempre stato un cronista mai un opinionista e quello che mi è sempre piaciuto, nel giornalismo come nella scuola, è il contatto umano dal quale poi sono nate tante amicizie, in primis col fotografo Giorgio Andreato e con lo storico sindaco di Valtorta Piero Busi. Quest’ultimo viene ricordato solo per il centro anziani Don Palla, ma ha fatto tanto altro, soprattutto nel campo sociale, e io l’ho sempre supportato. Con Andreato poi ne abbiamo viste di tutti i colori e qualcuno se n’è un po’ approfittato della sua generosità, ma ha lasciato un patrimonio storico-fotografico sulla Valle Brembana che andrebbe valorizzato».
Nel giugno del 1988, dopo aver preso parte della commissione agli esami di quinta elementare, Tiraboschi ha raggiunto la pensione da insegnante e quindi ha avuto più tempo per il giornale. «Inizialmente mi occupavo di sport, la cronaca dello sci e del calcio, poi mi hanno fatto seguire gli eventi in Valle Brembana e Imagna. In tutta la provincia eravamo pochi collaboratori e della Valle Brembana ero solo io. Negli anni ho fatto anche Radio Bergamo: facevo il collegamento radio in diretta ed è stato divertente». Snocciola, quasi fosse una nota poesia, i nomi dei sindaci che «hanno fatto tanto per la Valle ma forse non sono stati valorizzati come si meritavano: Piero Busi in primis, Marco Balicco di Mezzoldo, Davide Calvi di Moio de’ Calvi, Battista Donati di Lenna e i viventi Gianfranco Invernizzi di Foppolo, Giacomo Calvi di Piazza Brembana e Livio Ruffinoni di Cassiglio».
L’evento per eccellenza che ha segnato la Valle Brembana nella seconda metà del Novecento è stata l’alluvione del 1987 e Tiraboschi c’era. «Ho scritto poco ma ricordo bene tutto perché ho trascorso un mese giorno e notte su in alta Valle, da quel 18 luglio. Quella sera c’era il sole dopo l’alluvione e ho raggiunto la redazione de L’Eco in elicottero con l’assessore regionale Giovanni Ruffini: abbiamo fatto un giro di ispezione e sono convinto che Lenna sarebbe sparita se non avessero tenuto le dighe su in alta Valle. In quel periodo c’è stata un’unione di intenti e un’umanità nella gente che non si sono più viste in Valle: Busi dirigeva, gli altri ascoltavano e tutti si aiutavano». Dopo l’alluvione sono arrivate le gallerie «grazie a Remo Gaspari, tanto fischiato perché era al mare quando c’è stata l’alluvione ma lui in persona avrebbe potuto fare ben poco, quindi ha mandato gli esperti in Valle».
Tiraboschi in Valle è sinonimo di Fiere del bestiame: presente a tutte, pubblicizzandole con numerosi articoli sia di presentazione sia di cronaca. Per motivi familiari, questo è il primo anno di assenza e pare che non sia passata per nulla inosservata. «Sono stato un sostenitore delle Fiere del bestiame e mi sono appassionato al mondo dell’agricoltura dei nostri paesi, organizzando per anni Festinvalle insieme ad altri amici. Ho caldeggiato i produttori nella costituzione del Consorzio del Formài de Mut, insieme allo storico Giacomo Calvi e ai produttori Abramo Milesi di Valtorta e Pierangelo Apeddu di Piazza Brembana, quest’ultimo poco valorizzato ma è grazie a lui se ora la Valle ha il marchio del Formài de Mut».
Da quasi 50 anni racconta ininterrottamente la Valle Brembana sulle pagine del quotidiano provinciale, adeguandosi ai tempi e ai mezzi che cambiano. «All’inizio dettavo gli articoli per telefono oppure li mandavo tramite il “fuori sacco”, una busta gialla da consegnare all’autista del pullman della Sab che una volta raggiunta la stazione di Bergamo la consegnava alla vicina redazione. Alla fermata a volte mandavo mia mamma e altre volte mia moglie e non sempre il pullman era in orario o l’articolo arrivava a destinazione. Poi è arrivato il fax che ha semplificato tutto e infine il computer. Quando seguivo le gare di sci, andavo sul posto e al rientro, mentre guidavo, dettavo l’articolo a mia figlia seduta in fianco. Adesso tanti giornalisti stanno comodamente a casa o in ufficio e copiano i comunicati stampa, ma il vero cronista deve essere presente sul luogo dell’evento. Una volta ho provato anch’io a farmi dettare la classifica di una gara di sci, ma c’erano tanti giapponesi e al secondo nome ho chiuso la telefonata e ho fatto prima ad andare sulle piste da sci a prendermi quella classifica».