Nuova puntata della rubrica “Vi racconto una fotografia” curata da Filippo Manini, musicista valdimagnino, direttore del Coro CAI Valle Imagna, compositore, educatore, amante della sua terra e da qualche anno appassionato di fotografia (qua il suo profilo Instagram se volete vedere i suoi scatti). Buona visione e lettura!
Parlando di luce, l’inverno porta con sé una sottile e piacevole contraddizione. È la stagione più umbratile dell’anno; il suo è un incedere crepuscolare che accende tardi il sole al mattino e lo spegne presto al pomeriggio. La notte è più lunga del giorno, fino al momento del solstizio d’inverno. Allora la luce torna ad allungarsi, sempre più e a poco a poco, e con il suo ripristinarsi ridona un senso di calore e speranza.
Non a caso gli antichi festeggiavano in questo momento il Sol Invictus, la divinità della luce (Helios, Mitra, Apollo) che non viene mai inghiottita dalle tenebre. E non a caso, con l’avvento del cristianesimo, si innestò su questa festa pagana la festività del Natale, nella quale il Natalis Solis Invicti venne sostituito dalla Nativitas Domini, e il Sole divenne allegoria della Grazia e della Sapienza di Dio che si incarna.
Dicevo di una piacevole contraddizione. Ho sempre trovato interessante che la stagione più crepuscolare dell’anno diventi di fatto una celebrazione della luce. Ma del resto siamo fatti così. La mancanza di un qualcosa ingenera in noi la brama d’averla; l’assenza fa avvampare il fuoco del desiderio; l’attesa della festa è più potente ed evocativa della festa stessa. Nella mia fotografia regna sovente l’ombra; ma è un’ombra abitata dalla luce, seppur flebile. È il persistere di una presenza “altra”. Un anelito a qualcosa, o a qualcuno. Un percepire che c’è sempre qualcosa oltre, al di là del confine cui arrivano i nostri occhi. La fotografia allora è un mezzo per cercare oltre quel confine. Di “cercare oltre” mi capita spesso quando me ne vado in montagna.
Un pomeriggio di qualche anno fa questa ricerca si fece ancor più vivida, quando mi ritrovai a camminare su per il Pralongone in mezzo a nebbie invernali e neve caduta in abbondanza. Neve sotto e nebbia sopra significano bianco ovunque. Bianco che stordisce e che non fa vedere nulla. Necessitiamo di zone d’ombra per orientarci e per conoscere dove siamo e chi siamo; la troppa luce non è funzionale all’incedere umano. La troppa luce è una noia mortale. Anche in fotografia.
Fu così che salendo in tutto quel bianco alienante, mentre tentavo di raggiungere la Torre di Pralongone e ricavarne una veduta invernale, pensai non fosse molto ragionevole rischiare di perdermi al freddo tra le giogaie alla base della Tisa, e tirai dritto su per la costa dei Canti. Decisione che si rivelò fruttuosa. Il calare del sole generò il rimescolarsi delle masse d’aria nel catino d’Imagna, le nebbie si abbassarono di colpo, e come in una visione mi comparve il Re sopra le nebbie, isola sperduta in un oceano infinito.
Accanto al Serrada, il Sol Invictus se ne scendeva a ponente, nelle zone del Monviso. Scattai al volo, senza troppo impegno compositivo, e la nebbia mi regalò una curva che incorniciava il Re e andava in fuga verso il sole. Poi l’aria cambiò di nuovo, e fu nuova tenebra. Nel crepuscolo, me ne scesi con la frontale verso i Tre Faggi, nel cuore (e sul sensore della d7200) un frammento come una promessa, di un breve ma intensissimo momento di luce e calore. Il Sol Invictus, la luce che le tenebre non possono sconfiggere. Vi auguro un buon Anno di luce.
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