Siamo figli e nipoti del Medioevo, nel bene e nel male. Corsi e ricorsi storici, usanze e abitudini, vizi e virtù: nessuno nasce dal nulla, tutto si riscopre debitore di un passato da studiare, da conoscere, da indagare con attenzione. Una premessa metodologica decisamente disattesa, volutamente ignorata, nel tempo degli anacronismi diffusi e della partigianeria storiografica. La Valle Imagna, con le sue tradizioni e il suo radicato tessuto storico e sociale, non fa certo eccezione: una terra che cresce, che evolve, offrendoci un’istantanea delicata e potente in grado di coniugare passato e presente. Una parte che racchiude, evocandolo con gratitudine, un generale, un universale: non è possibile darsi norme e prospettive, nonché principi e criteri, riguardanti l’etica, la religione, la storia, l’arte e la politica, dimenticandosi l’orma lasciata dalle generazioni precedenti, pena l’irrilevanza e la sterilità di qualsiasi riflessione e decisione.
Chi siamo e da dove veniamo? Verso quale orizzonte stiamo muovendo i nostri titubanti e incerti passi? Un’interessante chiave di lettura sembrerebbe procedere da un documento ancora oggi attualissimo, intitolato Statuta et ordinamenta comunium Leminis Valisymanie Palazagi del 1444 (refuso in Gli statuti del vicariato di Almenno, Valle Imagna e Palazzago del 1444, a cura di A. Previtali, per i Quaderni del sistema bibliotecario, V. I, collana diretta da G. L. Baio e C. Galante, Comunità Montana Valle Imagna, 2000). Dalla lettura puntuale del testo, dal “complesso delle norme contenute nello statuto del vicariato di Almenno del 1444”, è possibile “cogliere alcuni aspetti di vita sociale”.
Innanzitutto, come “la cellula sociale di base [sia] la famiglia […] fonda[ta] sul matrimonio”, istituto da intendersi nelle sue conseguenze e specificità tanto giuridiche quanto economiche: “Non si fa alcun cenno, infatti, al matrimonio, né alla sua cerimonia, ma solamente viene precisata la natura della sua prova giuridica: l’atto di dote”. La formazione di una famiglia, mediante l’istituto giuridico del matrimonio, disciplina, pertanto, numerosi e significativi aspetti sia del privato sia del vivere in società: la dote e la “quarta” (dono del fidanzato corrisposto alla futura coniuge); le norme attinenti la gestione del patrimonio; la sottomissione dei figli alla figura paterna fino al raggiungimento della maggiore età e l’emancipazione giuridica degli stessi; il ruolo subalterno della madre e delle figlie; il compito decisivo rivestito dalle “famiglie o, meglio ancora, [dai] clan familiari (le parentele) [che] vivono e si confrontano in una realtà sociale dove la violenza sembra scattare rapidamente”.
Un ruolo, quest’ultimo, non sempre positivo o privo di ambiguità: la famiglia, infatti, agisce tanto da deterrente quanto da innesco di dinamiche conflittuali, determinando rivalità e tensioni. Non è un caso che lo Statuto elenchi con precisione “una lunga serie di violenze fisiche, arrecate, pare, con una certa frequenza alle persone, che vanno da quella meno grave, riguardante il tirare i capelli a qualcuno senza ragione, all’insulto, alla calunnia e al graffio, fino ai danni corporali più gravi, procurati da percosse e armi proibite”. La famiglia quale luogo di scontro e di rifugio, motore sociale ed economico, focus privilegiato per introdurci in un terreno complesso e articolato da decifrare, ma da non giudicare secondo le categorie del nostro tempo.
Quali furono, nello specifico, i mali e i vizi dell’epoca, coltivati, purtroppo, anche in seno alle famiglie? La preziosa testimonianza storica si sofferma in modo specifico su tre condotte o abitudini decisamente problematiche e preoccupanti, cioè la detenzione di armi, il gioco d’azzardo e la blasfemia. L’articolo 228 elenca con precisione le armi presenti sul territorio, stabilendo divieti e pene: “In quanto alle ferite o agli insulti, le armi proibite sono queste, cioè: il coltello illegalmente appuntito, la spada, il “tavolazzo”, il “brocchetto”, la spada, il “pighizotto”, il “coltelazzo”, la falce, l’”anficordia”, l’arco, la balestra, il “penacio”, il “mancasio”, la scure, la “secursella”, la “gratarola di ferro”, la lancia di ferro, l’ascia, la mazza ferrata, il bordone, la forca di ferro, il bastone, la pinza di ferro, il coltello da galone e la daga. Queste armi non possono essere portate con sé, eccettuati il “coltellazolo”, la scure e il bordone di ferro, che non s’intendono armi proibite da portare, considerata però la condizione delle persone che le portano e il luogo in cui si portano, ad arbitrio del signor Vicario”.
Una “nomenclatura” scrupolosa che rende manifesta la volontà, da parte del legislatore, di disciplinare una situazione di fatto, dettata peraltro anche da legittime esigenze lavorative, rischiosa per la sicurezza pubblica, in un territorio troppo spesso attraversato da guerre e conflitti, nonché da “movimenti sediziosi” suscitanti “la preoccupazione, da parte dell’autorità pubblica, di disarmare la popolazione” prevenendo pericoli reali, concreti.
La seconda problematica attenzionata risulta essere quella del gioco d’azzardo o clandestino, una “pratica […] vista come un ostacolo alla quiete pubblica e ai buoni costumi della collettività”, da combattere e da scoraggiare “perché fonte spesso di beghe e di rancori esplodenti nell’offesa morale e fisica”. Gli articoli 300 e 301 prevedono pene severe “sia per chi gestisce un gioco d’azzardo ai dadi o vi partecipa” sia “per chi gioca d’azzardo ai dadi o al gioco dei tasselli”: pesanti sanzioni economiche (fino a venticinque lire imperiali) e persino, in alcune circostanze, l’allontanamento coatto dalla comunità. Particolare attenzione veniva riservata all’atteggiamento e alle responsabilità degli osti, i quali erano tenuti a non tollerare simili comportamenti all’interno delle proprie attività: “Il signor Vicario deve, ogni due mesi, indagare e inquisire sui giochi clandestini, punire i responsabili e costringere tutti gli osti di detti comuni a dare idonea garanzia che non giocheranno né permetteranno che si giochi nelle loro taverne, in pena di dodici lire imperiali da applicarsi all’amata Dominazione”.
Una consuetudine discutibile, quella dei giochi, duramente ripresa dalle autorità competenti, “ad eccezione di due […] [cioè] i giochi che si praticano su una tavola, “ludus tabullarum”, e il gioco degli scacchi, “ludus schacorum”, purché fatti di giorno e in luogo pubblico”. Un’altra dura e difficile battaglia, portata avanti dal legislatore, è rappresentata da quella contro le piaghe della bestemmia e dell’imprecazione (contro Dio, la Vergine e i Santi), prevedendo ammende economiche e persino la reclusione dei soggetti coinvolti. Si realizzava in tal modo una proficua collaborazione tra la Chiesa e le altre autorità civili, al fine di stabilire e di salvaguardare il decoro pubblico, nonché il rispetto nei confronti dei valori e dei principi della fede. Gli articoli 308 e 309 decretano che “nessuna persona [possa] bestemmiare o maledire Dio o la Beata Maria Vergine sua madre, sotto pena di dieci lire imperiali da applicarsi al comune o alla contrada in cui abita il bestemmiatore” e che “nessuna persona [possa] bestemmiare o maledire un santo o una santa, sotto pena di cinque lire imperiali per ciascuno e per ogni volta”. Nel caso in cui il blasfemo si fosse trovato nell’impossibilità di versare la somma dovuta, “il colpevole [doveva] essere messo ai ceppi”.
Mali antichi, ferite aperte, da contestualizzare e da non assolutizzare, tratti distintivi della Valle Imagna dell’epoca, una terra attraversata da “tutte le contraddizioni tipiche di una comunità di montagna” che accanto a situazioni e a realtà interessate da immoralità e di illegalità esibiva, tuttavia, con orgoglio e vivo senso di appartenenza, anche preziose devozioni, tradizioni, feste e costumi.