Giacomo Quarenghi e il suo particolare tratto grafico, un segno distintivo in grado di svelarci lati nascosti del carattere, dell’opera, dell’infaticabile attività umana e artistica di un genio versatile, figlio illustrissimo delle nostre amate montagne (Rota d’Imagna, 21 settembre 1744 – San Pietroburgo, 2 marzo 1817). L’imperatrice Caterina, con benigna simpatia, lo paragonava a un cavallo per via di quel suo affaccendarsi instancabile intorno a progetti lavorativi molteplici e faticosissimi.
Un uomo che ha legato il suo nome all’architettura, guadagnandosi fama e notorietà imperiture, divenendo un simbolo – anche per via di quel suo nasone bizzarro e ingombrante – di modernità e di genuinità, nonché di successo e di realizzazione personale. Una storia, una vicenda, che si lascia tradurre e decifrare tra le linee dei suoi elaborati grafici, bozze e disegni preparatori, studi meno noti o semplici occasioni di divertissement. Impugnare la matita, sfumare e rigare, tracciare rette e ammorbidire forme, creando e divagando, abbandonandosi a sogni e a occasioni di evasione, senza dimenticare l’esigenza del vero, nutrendo nel medesimo istante “lo scrupolo di tradurre rigorosamente il soggetto” (Giacomo Quarenghi, a cura di S. Angelini, testo di V. Piljavskij, catalogo di V. Zanella, Edizione promossa dal CREDITO BERGAMASCO, MONUMENTA BERGOMENSIA LXVII, 1984).
Una “grafia rimasta costante, pur nel variare del vigore fisico”, una sorta di esibizione di sé, coerente e distintiva, fedele all’originale “per oltre un quarantennio”. Un connubio riuscitissimo di aderenza al reale e di libera rappresentazione del proprio più intimo desiderio, un innesto fertilissimo mediato dalla storia vissuta e immaginata dall’artista. Le figurazioni vergate dal nostro esibiscono “linee disinvolte e sintetiche” nei particolari architettonici, “riccioli continui”, quasi calligrammatici, che fanno capolino tra i disegni di fronde e arbusti, ma anche di “torri, ponti, chiesette, templi, corsi d’acqua [e] profili di monti”.
L’immagine della donna, soggetto imprescindibile di rappresentazione di ogni nobile intelletto e sensibile volontà, acquistava nel tratteggio del Quarenghi una sua naturale rotondità e morbidezza, rivelatrice di una bellezza feconda a servizio della vita presente e futura. “Donnine tonde e grasse”, protagoniste del proprio tempo, che “popolano a gruppi i primi piani dei paesaggi inventati”, vestite alla moda, “figure [che] rappresentano la sigla paradigmatica, il sigillo di autografa autenticità” del noto architetto valdimagnino.
La scelta dei materiali non lasciata al caso, realizzando una preziosa e riuscitissima sintesi tra forma e materia, tra metodo e contenuto: l’uso di una penna metallica su carta vergata e l’opzione preferenziale per un pennello di piccole dimensioni attraverso cui distendere “macchie di china o seppia o bistro, in modo ordinato ed insieme vibrante”, lasciandosi dominare “dall’idea vera del semplice e del grandioso”, giocando con elementi antropici e naturali.
Disegnare è un atto creativo, originare mondi mediante la mano guidata dalla forza del pensiero. Raffigurare è un gesto provocatorio, un’attestazione coraggiosa e libera delle proprie idee, del proprio singolare posizionamento nella storia e nell’ambiente. Nel dominio della luce, precipuamente e singolarmente, il nostro sembra “reagire al rigorismo glaciale dei canoni d’architettura”, danzando astrattamente, e artificialmente, “dalla tremula solarità del Canaletto alle tenebrose densità di Lorrain”, tradendo una razionalità e uno studio rigorosi delle geometrie delle ombre, animando “grafismi fantasiosi ed inattesi”, blandendo con moine coccolanti “le regolari e un po’ monotone cadenze architettoniche”.