Repubblica Cisalpina, quando i valdimagnini fecero fuggire una folla impazzita con un (finto) cannone

Tra storia e leggenda, il nostro Luga Bugada ci racconta di quando, nell'estate del 1797, un gruppo di valdimagnini scese a Bergamo per protestare contro la nascita della Repubblica Cisalpina... con un cannone.
7 Febbraio 2025

“Al tempo della costituzione della Repubblica Cisalpina, quelli della Valle Imagna, per nulla favorevoli al nuovo ordine di cose, parteggiando anzi apertamente per la Serenissima, mossero dalla natìa valle alla volta di Bergamo, capitanati da certo Moscheni.” La leggenda patriottica che ci apprestiamo a raccontare, rifusa all’interno della raccolta dell’autore Carlo Traini, intitolata Leggende bergamasche (ed. Il Conventino, Bergamo, 1979), riporta il lettore all’estate del 1797 allorquando, “costituita dall’ex Lombardia austriaca, dai territori del Veneto e del modenese, da Reggio alla Garfagnana, nonché da porzioni tolte alla Cispadana e scambiate con la Romagna” (G. Pécout, Il lungo risorgimento. La nascita dell’Italia contemporanea (1770-1922), a cura di R. Balzani, Milano, ed. Bruno Mondadori, 2011), nacque, “sotto l’appellativo di Repubblica cisalpina” (ibidem) e “con Milano unica capitale” (Ibidem), la Repubblica Cisalpina.

“Le province ex venete di Bergamo, Brescia e Crema” (C. Capra, Storia moderna (1492-1848), Ed. Le Monnier, Milano, 2011), nonché il vasto territorio della Valtellina, confluirono all’interno del nuovo organismo politico, determinando inevitabilmente il declino di Venezia, che “sotto la pressione della circostanze, pose fine volontariamente al proprio plurisecolare dominio con la deposizione dell’ultimo doge il 12 maggio 1797” (ibidem).

Un periodo convulso e concitato che venne tristemente risolto da Napoleone, mediante la famosa pace di Campoformio stipulata con l’Austria, “che in cambio del riconoscimento della Repubblica Cisalpina otteneva il Veneto, l’Istria e la Dalmazia” (ibidem), realizzando di fatto un “commercio di popoli [che] amareggiò e deluse profondamente quegli italiani che avevano creduto alla volontà dei francesi di liberare l’Italia, avvi[ando] un ripensamento di tutta l’esperienza rivoluzionaria” (ibidem). Tra i più delusi vi fu il grande scrittore Ugo Foscolo che diede forma letteraria al suo cocente rammarico nelle celebri Ultime lettere di Jacopo Ortis.

Memorie storiche che alimentarono leggende, frutto di insofferenze, timori e aspettative tradite, in grado di suscitare racconti preziosi, indicatori di tensioni tra la Città e la Valle, tra territori differenti e tra classi sociali dalle più disparate esigenze e necessità. Riprendiamo il filo narrativo della leggenda in esame: “Sparsasi in città la notizia di questa spedizione, uno stuolo di cittadini, fautori dei Francesi e delle instaurate libertà, uscì da Porta Broseta incontro ai Valdimagnini, con in petto i più micidiali propositi”(C. Traini, op. cit.).

Il conflitto e “la mischia fratricida” apparvero inevitabili, ma la furbizia e l’audacia del capitano Moscheni mutarono il corso degli eventi, spegnendo il furore dei “bellicosi cittadini”, i quali “vol[sero] le terga, dandosi a fuga disordinata, in preda a panico così irrefrenabile che, infilata contrada Broseta al galoppo, alcuni di essi finirono per rotolare fra i cavoli esposti a mucchi e a ceste, in Piazza Pontida detta allora Piazza della Legna” (ibidem). Una fuga precipitosa, descritta volutamente con impietosa ironia, determinata dai comandi minacciosi proferiti dal belligerante Mocheni, il quale “urlò a gran voce questo ordine, quanto iperbolico, altrettanto sbalorditivo: “Fuoco al cannone!…”” (Ibidem).

La millantata potenza di fuoco (“al momento della pugna, di cannoni non ce n’erano; l’audace stramberia del condottiero valdimagnino aveva, da sola, ottenuto l’effetto di sgominare l’oste nemica”) decise l’esito della disfida, senza colpo ferire, senza sangue versare. Intorno all’esistenza e al destino del misterioso cannone, vennero ricamate dagli aedi valdimagnini successive leggende, ricordando al lettore e all’uditore come le storie siano da sempre genitrici fertili e generose di racconti ulteriori, affluenti secondari sfocianti dalle e nelle medesime acque: “Si è discusso poi circa l’esistenza di questo preteso cannone. Vi è chi ritiene che non sia mai esistito; altri invece affermano che quei della Valle Imagna avevano, sì, costruito un cannone, ma di legno, per cui al primo sparo che si fece in via di esperimento, fu ridotto ad un mucchio di schegge meglio utilizzabili per il fuoco domestico che per quello bellico” (ibidem).

Un racconto del passato, una storia vera o inventata che sia, che possa essere d’auspicio, affinché “la montagna bergamasca [possa] ridiventa[re] madre amorevole e provvida, riacquista[ndo] tutti i suoi figli, tutta la sua gente […] laboriosa, onesta, prolifica e intelligente. Tornino tutti i Bergamaschi a scaldarsi alla sacra fiamma del focolare della famiglia e a riudire le leggende che nella fanciullezza li faceva pendere, con pupille intente e a bocca aperta, dalle labbra di quello e di quella” (ivi).

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