Il valore della memoria e l’importanza del ricordo si trasmette anche attraverso i racconti familiari. Il Comune di San Pellegrino, in prossimità della ricorrenza del Giorno della Memoria (27 gennaio), in collaborazione con ANED, propone in questi giorni, una serie di attività ed iniziative che, a partire da venerdì 21 gennaio, si svilupperanno fino a venerdì 27 presso la Sala Putti di Villa Speranza.
La prima iniziativa proposta da Lisa Genini, Assessore alla Cultura, è stata il 21 gennaio la rievocazione dell’esperienza vissuta da Bonifacio Ravasio, ex deportato politico nel campo di Buchenwald da parte del nipote Leonardo Zanchi, sanpellegrinese, e attuale presidente di Aned Bergamo. L’ ANED è l’Associazione Nazionale Ex Deportati nei campi di concentramento. I suoi aderenti sono i sopravvissuti allo sterminio nazista, i familiari dei deportati e coloro che intendono studiare e divulgare, soprattutto tra i giovani, la storia del fascismo, della Resistenza e delle deportazioni nei Lager nazisti.
“Mio nonno materno era nato il 24 maggio del 1927”, inizia il racconto Leonardo Zanchi, “ad Alzano Lombardo ed è cresciuto in una famiglia antifascista nella quale si condividevano le idee socialiste di Francesco, il nonno di Bonifacio.” Nel 1943, quando aveva 16 anni, Bonifacio inizia a lavorare per la STIPEL, una società telefonica col compito di portare gli elenchi del telefono a domicilio. La distribuzione era fatta in bicicletta ed avveniva a Bergamo. Negli elenchi, però, Bonifacio inseriva volantini antifascisti contro Mussolini e il regime. “Più volte il comportamento di mio nonno venne segnalato alla Stipel, ma inizialmente venne richiamato ma non fu licenziato.
Ad Alzano tutti conoscevano l’orientamento antifascista della famiglia Ravasio e Francesco viene interrogato spesso e picchiato dai fascisti per le sue affermazioni al bar del paese e tra gli amici . Un giorno Bonifacio vede che Francesco viene ancora fermato dai fascisti, ma questa volta lo segue. Sente le urla di suo nonno dalla caserma mentre viene picchiato e decide di entrare, aggredisce uno degli aguzzini, libera Francesco e scappano”.
All’inizio del ’44 comincia la fuga di Bonifacio che su consiglio del padre si nasconde a Tracento, un paesino in provincia di Udine, in Friuli, dove vivevano dei parenti che lo ospitano nella cantina della loro osteria. Aveva 17 anni. “Ma presto mio nonno si rende conto che il nascondiglio non è sicuro e metterebbe troppo a rischio la famiglia che lo ospita”.
Quindi Bonifacio cerca una soluzione adottata da tanti in quel periodo: cerca di farsi arruolare dalla Todt, una organizzazione tedesca che operava nei paesi occupati e che reclutava manodopera per lavori di riparazione di strade o ponti danneggiati o distrutti dai bombardamenti e che prometteva in cambio uno stipendio, vitto e alloggio. “Quando viene arruolato nella Todt mio nonno manda 2 fotografie a casa”. Era in divisa, con una espressione sorridente, e scrive sul retro delle fotografie di non preoccuparsi perché sta bene. Dopo quelle 2 fotografie, fino a quando non tornerà a casa dai lager i suoi non avranno più notizie di lui.
“Entrare nella Todt era una soluzione adottata da molti in quel periodo, che, oltre che motivi economici, pensavano che confusi tra i lavoratori Todt non sarebbero più stati cercati da fascisti e tedeschi; ma per mio nonno non fu così”. Il 10 luglio 1944 la Gestapo compie un rastrellamento proprio a Tarcento: tra gli arrestati, oltre a Bonifacio, c’è anche Antonio Savoldelli di Clusone, anch’egli coetaneo di Bonifacio e che Leonardo ha incontrato nel 2019, raccogliendone la testimonianza.
“La Todt li aveva venduti come lavoratori schiavi,” racconta Zanchi tradendo con gli occhi un po’ di emozione, “ così da non dover corrispondere il compenso promesso. Una volta nelle carceri di Udine, i tedeschi vengono a sapere che mio nonno era già ricercato dai fascisti di Bergamo e Alzano. E a quel punto la sua posizione si aggrava”.
Trasferito nel carcere di Udine il 31 luglio viene deportato. Dalle ricerche storiche fatte da Leonardo, il nonno viene inserito nel “trasporto 68” (secondo la classificazione fatta dal ricercatore storico Italo Tibaldi che ha ricostruito tutti convogli fatti verso i campi di concentramento). Il treno parte da Trieste già pieno di persone di ogni età e con donne e uomini assieme, e quando arriva a Udine viene ulteriormente riempito. E così comincia la disumanizzazione dell’individuo perpetrata dai nazisti. Esiste un solo secchio nel carro bestiame dove sono stipati i deportati che resteranno in treno per tre giorni. Al caldo, senza acqua ne cibo, e solo la pietà e il pudore di qualcuno che copre con la propria camicia una donna mentre si china sul secchio per espletare i propri bisogni davanti a tutti.
Il 3 agosto il treno arriva a Weimar. Il campo di concentramento di Buchenwald viene istituito nel luglio del 1937 sulla collina dell’Ettersberg, a pochi chilometri da Weimar, nella regione della Turingia, in Germania centro-orientale. Le prime baracche del lager vengono costruite con il legname della rigogliosa foresta che ricopre l’Ettersberg, luogo prediletto dal poeta Goethe: nel centro del campo viene infatti preservata una quercia, nota proprio come “l’albero di Goethe”, la quale tuttavia non resiste al bombardamento alleato che, il 24 agosto 1944, distrugge parte del campo. Il lager doveva inizialmente chiamarsi “K.L. Ettersberg”, ma l’associazione culturale nazionalsocialista di Weimar si oppone, per evitare che un luogo della città venga associato ad un campo nazista, e ottiene la nomenclatura più neutra di “K.L. Buchenwald”, che letteralmente significa “bosco di faggi”.
Buchenwald nasce con lo scopo di detenere e punire gli oppositori politici, ma anche gli ebrei, i testimoni di Geova, i Rom e i Sinti e le persone omosessuali, i senzatetto e i disabili. I primi 149 prigionieri vengono trasferiti in questo lager dai campi di Lichtenburg e Sachsenhausen e sono impiegati nella costruzione di nuove baracche al fine di proseguire l’ampliamento del campo. Alla fine del 1937 il numero degli internati ammonta a 2.561. Fortemente simbolica è la scritta che accoglie i deportati sul cancello del lager e recita Jedem das seine, che significa “A ciascuno il suo” e s’imprime indelebile nella memoria dei sopravvissuti, proprio come lo zoo che viene disposto accanto al lager nel 1938 dalle SS.
Altrettanto evocativa è la via, che tutt’oggi si percorre attraverso il bosco per giungere al campo, nota come Blutstrasse, ovvero la “Via del sangue” in memoria dei numerosi prigionieri che lì caddero. I deportati scendono alla stazione della città di Weimar e a piedi raggiungono la sommità della collina su cui è eretto il campo passando prima tra le case della cittadina e poi per il bosco.
“La spersonalizzazione continua con l’assegnazione del numero di matricola. Bonifacio è il 33843 e non sarà più chiamato con il suo nome sino a dopo la fine della guerra. Il nonno non conosce una parola di tedesco e non capisce cosa gli viene chiesto al momento della registrazione al campo ma sui documenti i suoi dati sono perfetti a dimostrazione di una stretta collaborazione tra gestapo e fascisti. Viene denudato, rasato e, come tutti, anche nelle parti intime. Gli viene scattata una fotografia, lo sguardo è fiero quasi di sfida; gli consegnano la divisa da lavoro (il pigiama a righe) e sopra vi è il numero e un triangolo rosso con la punta verso il basso e una sigla IT (Italiano) nel mezzo. E’ il triangolo che rappresenta i deportati politici. ”
Il 5 settembre del 1944, assieme ad altri 200 prigionieri, Bonifacio viene trasferito ad Hadmersleben, uno dei sottocampi di Buchenwald. “Una miniera di sale nella quale era stata spostata la produzione bellica, proprio per sfuggire ai bombardamenti degli alleati in superficie. I deportati erano costretti al lavoro forzato per fabbricare alcuni pezzi delle ali dell’aereo Messerschitt Bf 109 e PEZZI era anche il nomignolo che i tedeschi avevano dato ai deportati (Stücke) e come tali erano trattati. Se si rompevano venivano eliminati”.
L’11 aprile del ’45, visto l’avvicinarsi delle truppe americane, il campo viene evacuato e inizia così la “marcia della morte”. Quando l’11 aprile 1945 il 37° Battaglione della Quarta Divisione Corazzata degli Stati Uniti raggiunge il campo di concentramento di Buchenwald. Dopo la fuga delle SS, i detenuti, che si erano organizzati in un comitato clandestino di resistenza all’interno del campo, occupano le torri e prendono in carico l’ordine e l’amministrazione del campo. Al momento della liberazione i prigionieri presenti nel lager che assistono all’arrivo dell’esercito degli Stati Uniti sono circa 21.000.
Fra questi sopravvissuti figurano 904 bambini (la maggior parte ha tra i 13 e i 17 anni, ma alcuni hanno anche tra i 6 e i 12 anni e due di loro addirittura 4 anni) che, secondo le regole che normalmente vigevano nel sistema concentrazionario, avrebbero dovuto essere eliminati appena giunti nel campo, poiché inabili al lavoro; il comitato clandestino di resistenza formato da numerosi deportati politici di Buchenwald riesce però a nasconderli in alcune baracche che tutti dicono essere infestate dal tifo e che non vengono controllate dalle SS per paura del contagio. Fra questi bambini vi è anche Elie Wiesel, che nel 1986 viene insignito del Premio Nobel per la Pace, per essere divenuto “messaggero per l’umanità” dopo “la sua personale esperienza della totale umiliazione e del disprezzo per l’umanità a cui aveva assistito nei campi di concentramento di Hitler”.
Si calcola che le persone che perdono la vita nel lager di Buchenwald e nei suoi sottocampi sono oltre 56 mila; gli italiani complessivamente internati in questo campo sono poco più di 4 mila. Il 16 aprile gli americani portano mille cittadini di Weimar in visita al lager, mostrando loro tutte le atrocità perpetuate dai nazisti e ancora visibili all’interno del campo. “Mio nonno continua la marcia della morte fino ad arrivare a Lovosice (Repubblica Ceca), sulle sponde dell’Elba”, prosegue Zanchi, “e viene caricato su un barcone con i deportati superstiti.”
L’8 maggio 1945, incrociano i soldati russi. “Ho rintracciato il diario di Edouard Desonai, un deportato belga, prigioniero a Hadmersleben, che pubblica le sue memorie: annota tutti i paesi in cui sostano durante la marcia e poi descrive la navigazione. Probabilmente erano diretti al ghetto di Terezín, che è molto vicino a Lovosice”.
Il viaggio si interrompe perché incontrano il contingente russo che inizia a sparare contro i nazisti, provocando l’affondamento di un barcone. “Quelli che avevano pensato essere rinforzi dell’esercito tedesco sono in realtà deportati, ormai ridotti a corpi scheletrici. Bonifacio si aggrappa a qualcosa per non annegare e sviene. Sopravvive grazie all’intervento di Sasha, un giovane soldato russo che si tuffa in acqua e lo salva ma che viene ucciso da una pallottola mentre trasporta mio nonno a riva. Quando, dopo 2 giorni di coma, mio nonno si sveglia lo portano a vedere il corpo di Sasha e non ci sarà più un giorno che Bonifacio non si ricorderà di chi ha sacrificato la propria vita per salvare la sua.
Malgrado le ricerche fatte Leonardo non è mai riuscito a trovare la famiglia. La Croce Rossa riporta Bonifacio a casa ad Alzano. È su una sedia a rotelle, ha 18 anni e pesa 37 chili, non è più in grado di masticare, riesce solo a ingerire cose liquide e sua mamma non lo riconosce. “Il nonno poi si riprenderà, all’inizio, come molti altri sopravvissuti, vive un momento di crisi, segnato dal silenzio e dalla continua e dolorosa rievocazione mentale del periodo nel lager. Successivamente, anche in nome dei compagni morti, sente il bisogno di raccontare, prima ai familiari, poi in pubblico. Alle conferenze lo accompagnavo sempre: iniziava a parlare e poi, quando la voce gli si rompeva per l’emozione, proseguivo il racconto”.
Bonifacio nel ’51 si sposa e ha 3 figli e numerosi nipoti. Muore a 91 anni e solo negli ultimi anni di vita sente il bisogno e il dovere di raccontare la sua storia. “Al liceo inizio a scrivere per il giornale della scuola”, ricorda Leonardo, “ e un giorno scrivo un articolo sul nonno e glielo porta da leggere. Lo avevo scritto sulla base dei suoi racconti e dei miei ricordi e quando lo legge commenta: mancano tante cose, bisognerebbe scriverlo meglio. Da li è iniziato il mio impegno e la ricerca ti tutto ciò che potesse rendere più completo il racconto del nonno. Ha curato il passaggio di testimone e ha legittimato le testimonianze e la ricerca fatta. Credo che sia giunto il momento che ciascuno di noi si renda erede di queste testimonianze”
“L’indifferenza è più colpevole della violenza stessa; è l’apatia morale di chi si volta dall’altra parte: succede anche oggi verso il razzismo e altri orrori del tempo. La memoria vale proprio come vaccino contro l’indifferenza (Liliana Segre)”.
“Finché vivrò, insegnerò ai miei figli e nipoti a odiare ogni forma di dittatura e a lottare sempre per la libertà (Bonifacio Ravasio).”
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Davvero una serata coinvolgente, istruttiva e formativa quella che si è svolta venerdì 21 gennaio presso la Sala Putti a San Pellegrino Terme, che si è dimostrata troppo piccola per accogliere tutte le persone che avrebbero voluto partecipare all’incontro con Leonardo. Tra il pubblico (più di 40 persone, non c’era un posto libero!) anche una significativa rappresentanza del Convitto annesso all’IS S. Pellegrino: 5 studentesse e 5 studenti, dalla classe IV alle classi I, accompagnati dal sottoscritto, uno degli educatori in servizio presso il Convitto, che hanno ascoltato con partecipazione le coinvolgenti ed emozionanti testimonianze di Leonardo Zanchi il quale, per inciso, proprio in questo periodo è…in cattedra proprio nella scuola frequentata dagli studenti convittori e alcuni dei suoi studenti erano seduti in prima fila ad ascoltare il loro “Profe”! La partecipazione degli studenti convittori a questo evento esterno ha arricchito con un esperienza nuova che, ne sono sicuro, resterà nei loro ricordi (e nei loro cuori), le abituali iniziative che ogni anno la scuola, e anche il suo Convitto annesso, organizzano in occasione del Giorno della Memoria. E non è finita qui! Venerdì 28 gennaio 5 di questi studenti hanno partecipato alla “Lettura Bendata” di Laura Togni, della Libreria Fantasia di Bergamo: una esperienza inconsueta per loro (e per il resto del pubblico presente) che ha suscitato in tutti i presenti un profondo coinvolgimento emotivo!