La Valle Imagna e la sua particolare forma di devozione religiosa, un legame identitario e caratteristico, una chiave di lettura preziosa per comprendere usanze e costumi secolari: “Soprattutto nel passato […] dominava forse un rigore eccessivo, presente soprattutto nelle persone anziane, quasi un giansenismo, che si tramandava per tradizione e si esprimeva con una valutazione di fatti ed eventi negativa” (M. Frosio, Preti di Valle Imagna. Esperienze pastorali raccolte da un sacerdote della comunità, in Gente e terra d’Imagna, Collana di cultura valligiana, ed. Centro Studi Valle Imagna, 2004).
Un’interpretazione della storia e della realtà segnata da un pessimismo antropologico, da una sfiducia nei confronti del prossimo, nonché da un continuo riferimento, particolarmente esplicito nella predicazione, alla presenza del male, al “concetto del peccato e [al] senso di colpa”. Gli uomini coltivavano abitualmente lo scrupolo e lo zelo, accostandosi con difficoltà “alla Comunione durante la messa quotidiana e domenicale” e solo dopo “avere prima fatto una buona confessione e praticato un profondo esame di coscienza”.
Il limitato e procrastinato accostarsi alla particola non è da intendersi come sintomo di una disaffezione comune alla gente del tempo, ma di un diffuso timore riconducibile all’immagine veterotestamentaria propria di un Dio severo e vendicativo (Dio ti vede): “Era la concezione di una divinità onnipresente, pronta a castigare l’uomo, specialmente quando sbagliava e peccava, rendendo difficile il perdono”. La catechesi, infatti, “era poco orientata a trasmettere negli uomini il concetto di Dio-padre, o Dio-amore” privilegiando la presentazione e l’esemplarità della virtù eroica della purezza, da viversi nella rettitudine costante tanto di pensiero quanto di azione. Il senso del dovere, in sintesi, precedeva e fondava la carità stessa, non viceversa. La liturgia domenicale preconciliare “non era molto partecipata”. Il sacerdote, celebrando in latino e rivolgendo le spalle ai fedeli presenti, “impediva che la gente fosse coinvolta”.
Ad accostarsi al Sacramento, “dopo l’Elevazione […] [e] le litanie della Madonna” erano perlopiù le donne, timorose e tremanti. La messa “terminava, dopo la benedizione eucaristica, con la recita mnemonica del prologo del vangelo di San Giovanni; seguivano poi le tre Ave Maria, la Salve Regina e la preghiera dell’Arcangelo San Michele, invocando la protezione sul nemico maligno”. La presenza del male rappresentava, pertanto, una compagnia e un pensiero costanti in ogni ambito del vissuto valdimagnino: una paura da esorcizzare, con cui confrontarsi e battagliare quotidianamente, nel foro interno ed esterno. Il sacerdote rivestiva un ruolo decisivo, facendo da tramite tra il mondo terreno e quello soprannaturale, divenendo una figura imprescindibile per esortare i fedeli alla buona battaglia, riprendendoli, sferzandoli ed educandoli, dosando con cura severità e magnanimità.
Il presbitero doveva sapere incarnare tutte quelle qualità richieste al fedele: il gregge, quindi, non solo si mostrava intransigente con se stesso, ma anche nei confronti del proprio pastore. Non è un caso che “alcune parrocchie [godessero di] un diritto in base al quale, ad ogni elezione del nuovo parroco, fosse proposta ai capi famiglia una terna di sacerdoti candidati a concorrere a quella parrocchia, diventando titolari della Prebenda del Beneficio Parrocchiale”. Nonostante le parrocchie di montagna comportassero meno guadagni e prestigio per i prelati incaricati, rispetto a quelle più ricche della pianura, “i concorrenti non mancavano” e “il clero era abbondante”.
La domanda e l’offerta si confrontavano, inaugurando trattative impensabili tra la Curia e i parrocchiani: “Non sempre il prete che era stato provvisoriamente mandato dalla Curia come amministratore, per non lasciare scoperta la parrocchia, ha avuto vittoria nel ballottaggio con altri concorrenti e, in molti casi, era costretto a fare le valigie”. Si trattava di un privilegio antico, mantenuto sino al 1940 a Sant’Omobono, cioè la possibilità per il popolo di eleggere il proprio parroco. Fu il vescovo Adriano Bernareggi (1884-1953) “a persuadere la gente delle poche parrocchie, in cui i capi famiglia mantenevano questo diritto, a rinunciare al diritto di voto, per lasciare al vescovo diocesano la designazione”. Solo la personalità e il carisma dell’alto prelato riuscirono a sradicare una pratica ben congeniata e disciplinata, che “si svolgeva [mediante] un regolare concorso ufficiale”, “valutato da sacerdoti esaminatori, con l’assistenza anche di un rappresentante dell’autorità dello Stato, i quali garantivano che il candidato vincitore ave[sse] doti idonee per guidare la parrocchia”. Il voto popolare (in taluni casi “introduce[ndo] in un bussolotto fagioli bianchi e neri”, i primi per i voti favorevoli, i secondi per quelli contrari) “dava adito a divisioni” e suscitava la nascita di “partiti contrapposti” in seno alla comunità.
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..altro che fondamentalismo islamico..!