Giovanni Impastato al Turoldo: “La mafia c’è anche al Nord, è importante la prevenzione”

Giovanni, scrittore e attivista, ha commemorato la vicenda di Peppino Impastato, suo fratello maggiore e vittima della mafia nel 1978.
8 Aprile 2025

di Davide Rigamonti e Giorgia Locatelli dell’Istituto Turoldo di Zogno, nell’ambito del progetto “The Giornalisti”

Martedì 31 marzo, all’interno dell’aula magna dell’Istituto Turoldo di Zogno, si è tenuto l’incontro con Giovanni Impastato (in foto a sinistra, con il dirigente scolastico Giovanni Savia). L’opportunità di parteciparvi è stata rivolta ad alcune classi, al fine di sensibilizzare gli studenti riguardo al tema della legalità, argomento di particolare importanza e attualità. Giovanni, scrittore e attivista, ha commemorato la vicenda di Peppino Impastato, suo fratello maggiore e vittima della mafia nel 1978. Nel corso dell’incontro ne ha infatti raccontato e commentato la storia, aggiungendo dettagli ed esperienze relative alla propria lotta contro il fenomeno mafioso. L’intera vicenda è raccontata nel film “I cento passi”, successo cinematografico del 2000.

Giuseppe Impastato, soprannominato “Peppino”, nasce il 5 gennaio 1948 a Cinisi, in Sicilia, all’interno di una famiglia mafiosa. Si trova fin da giovane in contrasto con le idee del padre e alla morte, per mezzo di un’autobomba, dello zio Cesare Manzella, inizia la sua denuncia delle azioni mafiose in un giornale locale da lui fondato. Uno dei primi articoli presenta infatti il provocatorio titolo “La mafia è una montagna di merda”.

Il giornale viene chiuso pochi anni dopo per decisione del sindaco, ma Peppino continua la sua lotta, svolgendo un importante ruolo nelle battaglie sociali del proprio comune. Si dedica, al fianco di amici e sostenitori, alla trasmissione locale di Radio Aut, grazie alla quale inizia a diffondere della buona musica insieme alle proprie idee politiche, con un’ironia che sarà un mezzo formidabile nella lotta alla mafia e uno dei motivi principali della sua condanna a morte. Poco tempo dopo decide di candidarsi per Democrazia proletaria e, nonostante l’assassinio, viene eletto. Infatti, il 9 maggio 1978, il cadavere di Peppino Impastato viene trovato sui binari della ferrovia Palermo-Trapani, dilaniato da una carica di tritolo.

L’episodio viene inizialmente giudicato come “attentato terrorista” associato alle Brigate Rosse, organizzazione terroristica italiana di estrema sinistra, molto attiva negli anni Settanta. Peppino vi viene infatti erroneamente correlato a causa di alcuni suoi ideali paralleli al comunismo. La sua morte a soli trent’anni in realtà è l’ennesimo crimine da aggiungere alla lunga lista degli attentati di Cosa Nostra ordinato da Gaetano Badalamenti, che era succeduto a Cesare Manzella come capo mafioso della cosca di Cinisi, del quale Peppino aveva denunciato le azioni.

Giovanni, incapace di rimanere indifferente di fronte alla vicenda, decide di continuare la lotta nel nome del fratello. L’incontro con gli studenti del Turoldo è stato solo uno degli appuntamenti che Giovanni Impastato ha tenuto nella provincia di Bergamo quest’ anno. Attraverso l’associazione “Tavola della Pace Vallebrembana” ha presenziato a diversi eventi per portare un messaggio che rimane attuale.

Come è cambiata la lotta alla mafia nel corso degli anni a Cinisi, nel suo comune? La mafia stessa è cambiata. La lotta continua e sono stati ottenuti alcuni importanti risultati, fra i quali denunce e processi, ma il fenomeno mafioso non è ancora stato sconfitto.

impastato turoldo2 - La Voce delle Valli

Quali difficoltà ha incontrato lungo il percorso, nel momento in cui ha deciso di continuare la lotta per Peppino? Prima della morte di mio fratello, non avevo affatto un ruolo di primo piano nella lotta alla mafia, ma in seguito le cose sono cambiate e ho dovuto assumermi molte responsabilità. Sono stati richiesti numerosi sacrifici, ponendo talvolta in secondo piano lavoro e famiglia. Tuttavia, quest’ultima mi è stata vicina nella mia scelta, appoggiandomi e supportandomi. Contrariamente a molte vittime della mafia, ritengo di aver ricevuto più di ciò che ho dato. Mi si sono presentate le opportunità di raccontare la mia esperienza a moltissime persone e di collaborare con l’editoria e il mondo del cinema.

Quali sono oggi le strategie migliori per combattere la mafia, soprattutto nei luoghi in cui è più radicata? Al giorno d’oggi la mafia è presente ovunque e va contrastata. Non è soltanto un problema di ordine pubblico, è un problema sociale e culturale. Va combattuta facendo leva sulla cultura mafiosa stessa. Bisogna partire da un sano progetto morale ed economico, riguardante anche lo spartimento dei beni mafiosi confiscati. Il motivo per cui la mafia non è ancora stata sconfitta è che non si tratta di un fenomeno antistato. La mafia è stata storicamente nello stato. La mafia è nello stato. L’argomento riguarda anche il Nord ed è molto importante la sua prevenzione, senza sottovalutarne la portata.

Ha mai avuto paura per la propria vita da quando ha cominciato a combattere per Peppino? Si, la paura c’è stata ed è stata tanta, soprattutto all’inizio. Tuttavia non mi sono mai lasciato condizionare né fermare. Me la porto dentro tuttora, ma di fronte ad opportunità come quella di oggi, nelle quali posso parlare ai giovani, non può prendere il controllo. La paura va gestita, anche se, in quanto esseri umani, è tutt’altro che semplice.

A seguito dell’intervento in aula magna, noi ragazzi della redazione abbiamo avuto l’occasione di continuare il confronto con Giovanni, che ha approfondito il racconto, parlando del rapporto con la sua famiglia, spaccata tra il codice morale del padre Luigi, appartenente alla cerchia di mafiosi di Cinisi, e l’audacia di Giuseppe, il quale denunciava le malefatte del padre. La madre Felicia, il cui ruolo è stato determinante nella vicenda, ha saputo riconoscere la bontà del figlio, riuscendo a remare contro un patriarcato che attanagliava le famiglie della Sicilia di fine anni Sessanta e riconoscendo la giustizia come una via d’uscita. In particolare, l’intervistato ha fatto riferimento ad un episodio avvenuto nel 1995, durante il processo “Badalamenti”. In quella circostanza la donna si alzò, indicando il maxischermo che inquadrava il sig. Badalamenti in collegamento dagli Stati Uniti, e pronunciò la frase: “Sei stato tu ad uccidere mio figlio”. Una frase semplice, che colpisce per il tono con cui venne pronunciata, senza odio, rancore o vendetta. Al termine dell’intervista abbiamo posto a Giovanni un’ultima domanda.

Un giornale come “L’Idea”, testata giornalistica provocatoria ideata dal fratello, ad oggi può fare rumore come lo fece all’epoca? Un giornale del genere avrebbe senso di esistere solo in forma digitale. Infatti i giornali cartacei stanno sempre più scomparendo e attualmente un giornale del genere non avrebbe mercato. Riguardo il contenuto, “L’Idea” era un giornale di rottura, uno dei pochi giornali locali a parlare di Mafia, e oggi un giornale del genere potrebbe riscontrare particolare successo, specialmente tra i più giovani.

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