Testo scritto da Leandro Rinaldi, studente della classe 4^AU Liceo delle Scienze Umane, Istituto Turoldo.
Nel seguente articolo, il primo di tre, tratteremo l’eliminazione della nazionale italiana di calcio dai mondiali del 2018. Questo evento riflette la situazione di tutto il sistema calcistico del nostro Paese. Abbiamo analizzato i punti di debolezza del sistema, per individuare quali interventi potrebbero riportare il calcio italiano ai massimi livelli di competitività.
Il tifo è parte integrante dello sport. La spinta dei tifosi può risultare decisiva per una squadra, che trae enormi benefici dai propri fan. Se il pubblico li supporta, i giocatori si sentono più motivati, più sicuri di sé. Anche per questo il calcio, in Italia e non solo, ha un grande seguito: i tifosi si identificano con la propria squadra del cuore e creano empatia con essa.
Ciò vale anche e soprattutto per i più giovani, che vedono nel tifo sportivo un mezzo per identificarsi in un determinato gruppo, per socializzare e per dar sfogo alla propria passione. Le partite della nazionale di calcio sono, poi, l’occasione per tanti ragazzi (e per i più grandi) di ritrovare un po’ di spirito patriottico, quantomeno nello sport: ci si sente nuovamente uniti nel tifare Italia.
Eppure a volte il tifo e la passione non sono sufficienti. Per portare l’Italia ai mondiali, contro la Svezia forte del risultato 1 a 0 all’andata a Stoccolma, non sono bastate 70.000 persone sugli spalti di San Siro. Non è bastata una prestazione solo di cuore, contro una squadra arcigna e organizzata. Al triplice fischio del signor Mateu è solo zero a zero, e allora l’onda dirompente della realtà si abbatte sullo stadio e lo travolge, così come spazza tutta la penisola: l’Italia non giocherà i mondiali del 2018 in Russia. Un disastro, l’apocalisse per il paese “che tratta le partite di calcio come una guerra”.
Un disastro annunciato, un risultato di certo non inaspettato dopo la partita di andata. Eppure il miracolo non sembrava impossibile: non basta solo metterci il cuore in una singola partita, quando a monte ci sono problemi vecchi di una decade. L’eliminazione dai mondiali è solo l’ultimo atto di una tragedia sportiva iniziata subito dopo la fine delle celebrazioni per la vittoria a Berlino nel 2006.
I cicli, anche calcistici, finiscono, i vincitori cambiano, nessuna squadra trionfa all’infinito. Eppure è possibile prepararsi a questa eventualità per tornare al più presto grandi. La Nazionale non l’ha fatto, non si è adattata al cambiamento e così, dopo il successo in Germania, è iniziata un’impressionante parabola discendente: dalla prova incolore di Euro 2008 alla totale disfatta dei mondiali in Sudafrica del 2010, quando gli Azzurri, campioni in carica, vengono clamorosamente eliminati ai gironi in un gruppo composto da Paraguay, Slovacchia e Nuova Zelanda.
Un tonfo clamoroso, con una squadra definita “bollita” e Lippi rimpiazzato da Prandelli. La finale raggiunta ai campionati Europei successivi è però un’illusione, distrutta da quattro gol degli spagnoli. I tentativi di aprire un nuovo ciclo vincente portano al nulla. In Brasile nel 2014 un altro capitolo impietoso: eliminati alla prima fase da Costarica e Urugay. Ormai è chiaro, il calcio italiano è giunto al capolinea.
“L’intero sistema va rivoluzionato e bonificato alle radici”, scrive la Gazzetta dello Sport. Eppure non succede nulla: il sistema calcistico resta arretrato. A Euro 2016 non basta la grinta; l’organizzazione calcistica in Italia è assolutamente non competitiva in Europa, figuriamoci nel mondo. L’epilogo della spirale è la partita del Meazza del 13 novembre scorso: il punto zero, da cui ripartire, fermandosi però prima ad analizzare ciò che non va e ciò che non funziona nel movimento calcistico italiano.