Nuova puntata della rubrica “Vi racconto una fotografia” curata da Filippo Manini, musicista valdimagnino, direttore del Coro CAI Valle Imagna, compositore, educatore, amante della sua terra e da qualche anno appassionato di fotografia (qua il suo profilo Instagram se volete vedere i suoi scatti). Buona visione e lettura!
Questa è la storia di uno scatto mancato. Insomma, può succedere a tutti. Programmi tutto e pensi di portare a casa un grande scatto in un posto magnifico e invece il posto che hai scelto è sì magnifico, ma sostanzialmente infotografabile. Purtroppo talvolta succede. Ci sono posti meravigliosi che tuttavia, nonostante “li giri e li pirli”, come si dice, non riescono a darti quello che cerchi.
Una volta mi successe anche su al Passo Gardena. Era metà luglio di qualche anno fa, ero su per farmi tre giorni in mezzo ai Monti Pallidi, un nido di bellezza in cui si torna sempre volentieri. Ma non ero ancora avvezzo a fotografie di un certo tipo. Non che ora sia chissà chi, per carità, ma almeno quando scatto ho un’idea da raccontare. Allora no, andavo un po’ a gusto comune. Facevo foto pensando più a quello che sarebbe potuto piacere a degli ipotetici fruitori che non a quello che realizzava davvero il mio pensiero. E infatti un pensiero fotografico non l’avevo. In ciò, la fotografia, come ogni arte, è magistra vitae. Se fatta con autenticità, ti porta in contatto con te stesso. Altrimenti è solo un’altra delle espressioni narcisistiche che costellano la nostra vita nevrotica.
Ma torniamo al Gardena. Insomma, quella sera volevo beccare il tramonto dal passo e non volevo sentire ragioni. Il tramonto venne, e fu davvero spettacolare. Aveva fatto uno di quei bei temporalini estivi fin verso le 20, poi pian piano si era calmato tutto e la coltre di nubi aveva iniziato ad aprirsi a sipario, lasciando filtrare i raggi dell’ultimo sole. I bagliori iniziavano dalla destra del Sassolungo e riverberavano sui contrafforti del Sella a sinistra. Le cromie andavano dal giallo intenso, all’arancione, al rosso, al magenta, ai verdi caldi della vegetazione carica di luglio. Diciamo che lo sfondo c’era. Ma non c’era altro. O c’era troppo. Per come mi girassi, non riuscivo a costruire una composizione degna. Alla fine scattai a caso, portai a casa una di quelle classiche foto-cartolina che “le sa gna de me, gna de te, gna de c…” e archiviai il Gardena. Fu molto frustrante.
Ma torniamo a casa, in Valle. E in particolare a Cà Loz, dal Francesco Roncalli, o, meglio, dal “Biscio”. Corista di lungo corso della Combricola e buon amico, il Biscio è sempre un’inesauribile fonte di informazioni su ciò che riguarda la Valle, soprattutto per quanto riguarda luoghi meno noti e relative storie che conservano. Durante la pandemia io ero rinchiuso in appartamento a Milano, lui invece girovagava per i boschi, rigorosamente a 200 mt da casa come prevedeva la normativa (be, più o meno dai…), e faceva dei video caserecci che poi condivideva sulla chat di gruppo della Combricola. Io che vedevo il Resegone col binocolo (letteralmente) dal balcone, e dalla parte sbagliata, da un lato rosicavo, dall’altro sognavo.
Un giorno inviò un video di un posto magnifico, girato nei pressi di una crepa profonda di una roccia, dentro la quale scorreva un torrente sotterraneo. Raccontava che quello era “Ol Fùren”, che si trovava alla testa della “Al dol mülì” tra Rizzolo e Grumello, a Mazzoleni, e che tempo addietro i nostri vecchi lo utilizzavano come frigorifero naturale. Ora, perché un “frigo” venisse appellato “forno”, francamente, non l’ho mai capito. Ma tant’è, me lo segnai come nuovo spot fotografico da esplorare.
Ad allentamento pandemia, tra le prime cose che feci una volta mollati gli ormeggi del lockdown, fu proprio quella di fiondarmi su nella Valle del Mulino. Valletta spettacolare, dove il carsismo lavora da artista (come in tutta la Valle Imagna, del resto), che si immette nella più ampia val Casino proveniente dalla “Corna Tralöca” per poi passare sotto “ol Put dela Poltrasca” e correre al suo appuntamento con l’Imagna a Selino in zona Ca’ Fros. Ovviamente il mio intento era quello di ritrarre degnamente Ol Furen che tanto mi aveva affascinato. Ma una volta giunto alla base della mitica crepa carsica seguendo le indicazioni del Biscio, ecco che accadde nuovamente la Maledizione del Gardena. Non ci fu verso di comporre una foto degna di quel nome. Zero.
Luogo bellissimo, ma infotografabile. Per me, ovviamente. Chissà, magari ad altri invece sarebbe venuta un gran fotografia. Il punto è che quel luogo tanto idealizzato, alla fine non mi aveva smosso granchè. Nella mia ancor acerba esperienza di paesaggista, ho imparato che se una scena non ti risuona dentro, pur oggettivamente bella, difficilmente con il tuo scatto riuscirai a trasmettere un’emozione. Per questo la fotografia, se vissuta con criterio, può essere uno strumento potentissimo per entrare in comunicazione con se stessi. E quando questa comunicazione si attiva, allora la fotografia arriva. È autentica.
Quindi, feci qualche scatto poco convinto. Poi girai i tacchi e me ne andai a orecchie basse. Ol Furen mi aveva tradito. Non pago dell’esperienza, ci tornai più volte, perché sono un gran testone. Ma zero, mai ricavato nulla dal “Furen”. La testardaggine tuttavia mi portò ad esplorare in lungo e in largo la splendida “Al dol Mülì”. Scendendo da Cà Loz, per andare verso Cà Quadre, la mulattiera passa un canale, che è poi quello che esce dal Furen e che scava la valle del Mulino. Un tempo, a scavalcarlo c’era un ponte in pietra che faceva da passaggio pedonale e insieme smistava l’acqua per condurla al mulino poco sotto, il mulino che ha dato il nome alla valletta. Quel ponte è ormai crollato da tempo. Il Biscio ci ha messo una passerella e ha ripulito la zona del mulino. Ci si trovano i resti della pavimentazione e pure l’antica macina.
Un giorno, grazie a condizioni meteo fantastiche (che per me voglion dire crepuscolo, nebbia, e pioggia imminente…) mentre cercavo di raggiungere il mulino, mi ritrovai sulla passerella del Biscio e mi colpì quello che vidi. In altre condizioni forse mi sarebbe sembrato un paesaggio più anonimo. Invece, quella volta, poco sotto il famoso “Furen” traditore, rimasi a contemplare inebetito per un bel po’ una scena densa di mistero degna della Terra di Mezzo di Tolkien. Allora scattai, e questa è la fotografia che mi portai a casa.