Lo sport come questione di famiglia. Per Andrea Arioli, ventenne di Branzi, non è affatto un modo di dire: il padre, Davide Arioli, è una vecchia conoscenza di questa rubrica (QUA la nostra intervista), nonché maestro di karate. Anche la mamma di Andrea ha praticato la stessa disciplina e il gene è passato dai genitori al figlio.
“Io adesso come adesso faccio kickboxing, fino a due anni fa circa praticavo karate, poi per vari motivi ho mollato e ho deciso di cambiare aria, mi sono dato al pugilato.” Eccola lì, la passione per la lotta declinata in tanti modi diversi. “Ho fatto boxe un anno a Milano, con un paio di incontri. Poi ho deciso di cambiare di nuovo: a differenza del karate, nel pugilato non si usano i calci e questo non mi piaceva moltissimo. Ho iniziato kickboxing con mio papà, ora mi alleno con Alex Avogadro (abbiamo intervistato anche lui, leggi QUA), mi alterno tra loro due dal 2019. Mi ci sono trovato subito, anche perché non si va troppo lontani dal karate.”
Quella è stata la sua prima arte marziale. “Ho iniziato col karate a 13 anni, abbastanza tardi, ma credo di poter dire di avercelo nel sangue. Lo facevano tutti i miei amici qui a Branzi, io prima giocavo a calcio a San Pellegrino. Ho capito subito che quello ero il mio ambito e da lì è stata una full immersion”.
Si capisce dunque che parlare di “sport di combattimento” risulta piuttosto riduttivo. Come ci spiega Andrea, dietro quelle tre parole si nasconde un mondo. “Esistono una marea di discipline e bisogna scegliere. Il pugilato mi è sempre piaciuto e l’ho sempre seguito; avevo in mente di provare qualcosa d’altro dal karate, avendo già una base ero portato. C’è poi il discorso del contatto, che per i karate ti non è previsto. Pian piano mi sono adattato, prendere calci non è così male. Da lì alla kickboxing c’è poco, ho iniziato con mio papà ma si vedeva che ero portato con la base che già ho. Allenandomi e migliorando la tecnica ho trovato la mia dimensione. Alla fine, è una questione d’istinto”.
Per quanto boxe e kickboxing possano sembrare sport meramente fisici, Andrea sottolinea l’altra faccia della medaglia. “A me piace il discorso mentale: sei tu con il tuo avversario, bisogna vedere chi è il più forte. Sul ring è me o te, mi piace far vedere quello che so fare. È più una cosa della testa, sei solo, a differenza magari di chi compete in squadra. Negli sport di combattimento ti fai male, quindi occorre avere massima concentrazione e la mentalità giusta”.
Ecco, il dolore. Il semplice spettatore potrebbe far fatica a capire come facciano due uomini ad accettare di buon grado di prendere colpi molto violenti. “Al dolore ti ci abitui, va messo in conto in uno sport del genere. Ti metti l’anima in pace, sai che prenderai colpi e devi pensare a darne di più, il discorso è quello. L’adrenalina, poi, fa sentire di meno il dolore, il giorno dopo si sente di più e quello dopo ancora se né già andato”.
Quello di Andrea è, in effetti, un sentiero segnato fin dalla nascita, un fatto che lo ha aiutato ad affrontare questi sport. “I miei hanno vissuto tutte queste cose prima di me, mia mamma era la mia prima fan e in più capiva la disciplina che praticavo, quindi per me era un supporto. Lei ci è rimasta un po’ male quando ho iniziato con la boxe; mio papà ha fatto lo stesso percorso, di conseguenza è solo che contento se vado avanti. Ci sono nato dentro e non ci posso scappare, del resto dovrò aver preso da qualcuno!”
Guai pensare, però, che stare sul ring o sul tatami voglia solo dire dare botte da orbi senza controllo. “La primissima cosa che ci si insegna è il rispetto, prima di tutto. Rispetto per l’avversario e per gli altri, ci si incoraggia a dare una mano a chi non ha le tue stesse capacità o è in difficoltà. Di conseguenza, questi insegnamenti te li porti fuori dalla palestra. Su tutto, occorre autocontrollo e rispetto”.
Ovviamente, Andrea sa che esistono eccezioni. “La gente matta c’è, imparano cose che poi applicano per fare male alla gente, ma non possono competere con chi conosce e ama lo sport. Purtroppo, sono tanti che vogliono fare lotta solo per farsi vedere o metter la foto sui social, lì spetta alla persona. Come ho già detto, prima di tutto viene il rispetto, se non lo capisci vuol dire che la lotta non fa per te e la palestra non è il tuo posto”.
A proposito di palestre, Andrea racconta di un avvenire sportivo incerto, ovviamente dettato dalla pandemia. “Se devo essere onesto, adesso il futuro lo vedo male. Ci sarebbe qualcosa a marzo, qualche incontro privato che di solito si organizza insieme agli eventi importanti. Poi certamente esistono i vari campionati, come accade nel karate, ma ora come ora non possiamo sapere quando ripartiremo”.