Quella di Letizia Milesi è una storia che parla di coraggio, speranza e forza d'animo. Quella stessa forza che l'ha resa un esempio non solo per i suoi coetanei, ma per un'intera valle che l'ha amata, sostenuta e accompagnata nel doloroso percorso che le ha permesso di rinascere. Tutto ha inizio il 26 ottobre del 2017, Letizia è una ragazza 17enne come tante, vive a Roncobello e frequenta l'Istituto Turoldo di Zogno, Liceo delle Scienze Umane. È una ragazza attiva, piena di vita, ama stare con i bambini e quando può fa l'animatrice o aiuta nello spazio compiti. Ma Letizia ha in tasca anche un grande sogno: la danza. Tanto da avere da poco iniziato una scuola per conseguire il diploma di insegnamento.
Quel 26 ottobre era un giorno come tanti, alla soglia dei primi freddi stagionali e per Letizia era la conclusione di una mattinata scolastica. Con la cartella piena zeppa di libri, sale i primi tre gradini del pullman che l'avrebbe riportata a casa, come accadeva quotidianamente o quasi. All'improvviso una forza inaspettata la tira verso il basso e la 17enne cade da poco più di un metro di altezza: finisce a terra ed il suo collo fa un movimento inaspettato, innaturale. Si rialza, ma qualcosa non va, il suo corpo non risponde ed il dolore che avverte è inspiegabile.
“In quel momento è iniziata la mia “avventura” fra gli ospedali, dove vi sono rimasta fino a giugno – racconta Letizia – La parte destra del mio corpo era paralizzata, ho dovuto affrontare diversi deficit neurologici, fra cui anche la perdita della vista dall'occhio destro, e gli organi interni hanno subito delle lesioni. A giugno sono uscita dall'ospedale su una sedia a rotelle: ho provato una sensazione stranissima, credevo che ci sarei morta su quella sedia, perché quella non era la mia vita”.
Shock e sconforto diventano degli smunti compagni di viaggio, uniti ai sacrifici e alle tante visite in giro per l'Italia, tutte dallo stesso responso: la situazione è grave. Soluzioni? Non ce ne sono. Non in Italia. “Mi sentivo sola. Avevo perso tutte le mie amicizie e uscire dalle mura “sicure” dell'ospedale è stato traumatico, per me – afferma Letizia – Certo, tante persone hanno cercato di aiutarmi, a partire dalla mia famiglia fino ai miei migliori amici, ma non li volevo ascoltare. Ero caduta nell'oblio della disperazione e anche se andavo a fare fisioterapia tutti i giorni, miglioramenti non ce n'erano. Davo sempre il 100% di me perché non ho mai abbandonato, nel profondo, la speranza di guarire, ma quando ne uscivo ero devastata anche se un minimo serena, perché sapevo di aver dato il meglio di me”.
La delicata condizione della giovane muta nel gennaio 2019, quando a causa del sobbalzo di un dosso vengono fatti ulteriori accertamenti: la patologia è instabile e la sua vita è appesa ad un filo. Anche una posizione errata nel dormire può esserle fatale. “Lì è iniziato il vero incubo – è sommessa la voce di Letizia mentre racconta uno dei periodi più bui della sua storia – Questo incidente ha fatto ripartire tutto: oltre alle analisi e ai controlli, anche il terrore di tutte le persone che mi erano accanto. Ed il mio terrore, perché la sola idea di non sapere cosa mi aspettasse da un giorno all'altro mi faceva credere profondamente che non ce l'avrei fatta”.
Eppure a volte, anche quando sembra ormai tutto scritto, la trama della vita ha ancora qualche colpo di scena da giocare. La luce della speranza si è accesa in un tiepido giorno di aprile del 2019, quando l'ennesimo medico è intento a controllare la sua situazione. Poche e semplici parole, uno squarcio nel cielo tempestoso: “Per fortuna non esiste solo l'Italia”. Condizioni simili alla sua esistono nel mondo, alcune sono state perfino operate in America. E il medico conosce l'uomo giusto, un dottore che lavora in Texas in grado di mettere insieme un'equipe su misura per un possibile intervento. Letizia e la sua famiglia si aggrappano a quel filo di speranza e tremano nell'attesa.
Fino ad agosto 2019, quando una semplice mail dall'oggetto “Buone notizie” fa battere i cuori in un mix di emozione, paura e, forse, anche un timido sollievo. “Nella mail ci dicevano di aver trovato l'equipe disposta ad operarmi con la situazione in cui mi trovavo in quel momento. Ciò significava che, in caso di peggioramento, sarebbe saltato tutto – spiega la giovane – In America la sanità è a pagamento ed il preventivo che ci avevano dato era esorbitante. Non saremmo mai riusciti a sostenere un costo del genere da soli”.
Per salvare Letizia, interviene l'abbraccio spontaneo e sincero dell'intera Valle Brembana, che ha dato vita ad una incredibile catena di solidarietà al grido di #nonsimollauncactus, legata a doppio filo all'Associazione “Sulle Ali di un Sogno Onlus” fondata da Letizia e la sua famiglia non solo per raccogliere fondi, ma con lo scopo ben preciso di aiutare gli altri e fare del bene. “Il 22 ottobre 2019 parto per l'America – racconta – L'ospedale era enorme, proprio come quelli che vedi all'interno delle serie tv. Vengo visitata dal neurochirurgo, ma la situazione era troppo instabile e perciò mi ricoverano immediatamente. Il 26 ottobre, l'anniversario dell'incidente, mi spiegano che la situazione era peggiorata drasticamente”.
L'operazione si può fare, ma è un grande rischio e le possibilità di uscirne viva sono bassissime: soltanto il 3%. “Mi sono sentita morire – continua Letizia – Il medico non se la sentiva, ma l'ho pregato, fra le lacrime, di operarmi ugualmente. Se fossi tornata a casa non avrei avuto tanto da vivere: tanto valeva provarci. Così ha acconsentito e, insieme a mia mamma, abbiamo firmato tutti i documenti. Mi ha promesso che la sua equipe avrebbe dato il massimo e avrebbe pregato per me tutto il tempo”.
Il 28 ottobre è la data fissata per l'intervento. “C'era un corridoio lunghissimo che portava in sala operatoria. Lì, a differenza dell'Italia, puoi accompagnare i tuoi cari fino ad una linea gialla, a pochi passi dall'ingresso. Ho stretto forte le mani di mia mamma e le ho detto “Ci vediamo dopo”. Non ero convinta, ma era una promessa. L'ultima cosa che mi ricordo è il neurochirurgo che mi guarda e mi batte il cinque, prima che due uomini mi mettessero la mascherina e mi facessero addormentare”. Intanto, dall'altra parte del mondo, in una chiesetta di Roncobello un via vai di donne, uomini e bambini si raccolgono in preghiera, fino a tarda notte. Sette, infinite, ore più tardi Letizia esce dalla sala operatoria: è viva e l'operazione è andata a buon fine.
“Della terapia intensiva mi ricordo poco, se non il dolore allucinante – racconta – Continuavo a domandare a mia mamma se fossi viva, perché non ci credevo. Quando sono stata trasferita in camera ho iniziato a realizzare che ero davvero stata operata, e ce l'avevo fatta. La prima cosa saltata all'occhio è stato il colore della mia gamba, da due anni ormai scura, in quel momento dello stesso colore dell'altra. Mia mamma è scoppiata a piangere, come al solito – ride Letizia – Mentre io non ci credevo. Però non riuscivo a sentirla”. Tuttora, Letizia non percepisce gran parte della parte destra del corpo, ha ancora dei gravi deficit, ma la sua vita non è più appesa ad un filo. “Quando mi hanno detto che la situazione era stabile, io ero già felicissima. Tanto. Perché non avevo più il terrore delle ore che passavano”.
Torna in Italia il 12 novembre e, come pervasa da una nuova linfa vitale, ricomincia a fare fisioterapia, che non è una terapia qualsiasi ma è sperimentale. Si chiama “Neurostimolazione funzionale” e consiste nell'applicazione di elettrodi che stimolano i fasci muscolari in modo sequenziale, simulando i movimenti. “L'intervento mi ha salvato la vita, ma devo assolutamente ringraziare questa fisioterapia che mi ha permesso di raggiungere grandi risultati”. Anzi, immensi risultati: l'11 febbraio 2020 Letizia abbandona definitivamente la sedia a rotelle ed esce dalla sala d'aspetto sulle proprie gambe.
“Ho iniziato a vedere il mondo piccolissimo, ero abituata a vederlo da seduta e mi sentivo altissima – racconta con spontaneità la giovane, che nel frattempo ha compiuto 20 anni – Mi sentivo il Re del mondo, con una forza incredibile dentro. Lì ho ripreso finalmente la mia vita in mano e tuttora la sto ancora costruendo. È vero, non sono la Lety del 25 ottobre 2017, ho ancora tutti i miei deficit, non riesco ad usare la mano destra e gran parte della parte destra del corpo, continuo a non vedere da un occhio, i miei organi interni sono ancora lesionati, a volte il piede ancora lo trascino. Però sono la ragazza più felice di questo pianeta”.
Quando le chiedono se non provi tristezza nel sapere che non potrà correre, saltare o tornare a ballare, la “supergirl” di Roncobello non si lascia abbattere: “È come se gli uomini piangessero perché non riescono a volare. Ero triste prima, perché non sapevo quanto mi mancasse da vivere. Mi sentivo sola, impotente davanti ad una malattia che uccide lentamente. Però ora sono felicissima di poter vivere, ho una forza dentro tale da stupirmi, a volte. Certo, ogni tanto quando vedo le mie ex compagne di danza ballare dentro di me sento un po' di malinconia, ma sono felicissima ugualmente”.
Ora Letizia fa l'Università, facoltà di Giurisprudenza a Milano. Le difficoltà sono ancora tante, così come tanti i sogni e la voglia di aiutare gli altri e restituire tutto quel bene che ha ricevuto quando più ne aveva bisogno. Lo dimostra l'impegno profuso della sua Associazione durante la prima ondata dell'emergenza, occupandosi della donazione di mascherine, guanti e gel disinfettante a tutti i volontari, dotando l'Ospedale di San Giovanni Bianco di un ecografo portatile per la diagnostica e di un tablet per accorciare le distanze fra famigliari e malati. Più recentemente, grazie ad una sostanziosa Borsa di studio finanziata a favore dell'Università di Pisa in collaborazione con l'Università di Losanna, il grande cuore di Letizia e di tutta la onlus contribuiranno al progetto di ricerca per la “stimolazione intraneurale del nervo ottico per il ripristino della visione in pazienti non vedenti”.
Ora che ha potuto riprendere la propria vita in mano, la giovane ventenne di Roncobello è un vulcano di idee e vorrebbe tornare a parlare nelle scuole, per far conoscere ad altri ragazzi come lei la sua storia. “Quello che è successo a me potrebbe succedere a chiunque. Se posso fare una minima differenza parlandone, allora io sono felice così – racconta Letizia – Se c'è una cosa che ho imparato in questi anni, in questi mesi, è che se tu affronti la vita con il sorriso e positivamente, ti migliora la giornata. Quando ero in America mi sono resa conto che non ero mai stata così felice come quando ho visto tutta la catena di solidarietà. Ho conosciuto tante persone, che si sono rivelate dei veri amici che non mi hanno mai mollata, mi hanno fatta vivere e divertire anche se la mia vita era appesa ad un filo. Mi sono sentita amata e apprezzata. Lì ho davvero capito che è inutile essere tristi, perché la vita è una: che duri 17 o 120 anni”.
“Io credo nel destino – conclude la giovane –. Fin da piccola credevo fosse la danza, invece questo incidente mi ha fatto capire che il mio è aiutare tante persone. Ed è per questo che è nata l'Associazione, perché se con la mia storia posso aiutare anche solo una ragazza, una famiglia o una qualsiasi persona, io sono felicissima così. Mi rendo conto che la mia vita da adesso e fino alla fine dei miei giorni sarà un continuo di controlli, ospedali e pastiglie. Però va bene così: è il giusto prezzo da pagare per essere vivi”.