La mia esperienza di farmacista in un altro mondo e in un’altra dimensione è iniziata cinque anni fa, verso la fine di novembre del 2019. In quel momento, per motivi personali, ho deciso di non tacitare la spinta che sentivo crescere dentro, a volte più forte, a volte meno, a volte lasciata libera di farsi sentire, più spesso soffocata per mille motivi (per lo più, in realtà, delle scuse per non lanciarsi in qualcosa di ignoto) verso una diversa via in cui poter svolgere il mio lavoro. Semplicemente, cinque anni fa, mi sono detto: “E perché no?”. E in quel momento, in quei pochissimi giorni nel villaggio di Bodgaun, la mia vita è cambiata.
Arrivai in questo piccolo villaggio del Nepal rurale, dove ora collaboro a portare avanti questo progetto sanitario, con altri volontari partecipanti ad una missione con la Fondazione Time4Life, in supporto alle attività umanitarie che qui sono condotte da una onlus italo-nepalese di nome JayNepal, fondata quasi dieci anni fa (era l’aprile del 2015, all’indomani del devastante terremoto che ha distrutto case e villaggi). Arrivai qui senza nessuna pretesa e senza nessuna aspettativa, né da parte mia (non sapevo cosa avrei trovato e cosa avrei potuto trarne) né da parte di Alberto Luzzi (fondatore di JayNepal) o dei ragazzi che operano qui a Bodgaun nei vari progetti creati per dare a questo popolo un futuro autonomo e dignitoso, fuori dalla povertà.
Arrivai qui come Michele, un volontario…. dopo pochi minuti ero Michele, il farmacista, e come tale da quel centro medico e dalla farmacia ad esso collegata, non mi sono più staccato! I due anni di Covid mi hanno tenuto lontano da questo villaggio, anche se ogni ci sentivamo per capire cosa dei sogni e dei progetti con cui ci salutammo dopo quei meravigliosi giorni della prima missione, poteva ancora essere portato avanti. Nella primavera del 2022 sono tornato qui, ed ora il progetto prosegue! Ma cosa vado a fare in Nepal? Cosa cerco? Cosa porto? Perché tutto questo? Forse il vero elemento base è da ricercare nel senso della mia professione, soprattutto per come la intendo io.
Farmacista come educatore alla salute in mezzo alla gente
Da più di vent’anni lavoro come farmacista nella farmacia che era di mio padre, nel paese dove sono cresciuto; un percorso professionale pieno di soddisfazioni, con la fortuna di poter decidere giorno per giorno come gestire l’attività che conduco. Sono farmacista e continuo ad esserlo nella mia farmacia tutti i giorni. Ho sempre sentito che tra le varie responsabilità di un operatore sanitario debba esserci anche quella di assumersi l’onere (e l’onore…) di condividere le proprie conoscenze (è un privilegio aver potuto dedicare anni della propria giovinezza a studiare e formarsi professionalmente), di educare le persone, di provare ad aiutarle a capire cosa sia meglio ed opportuno fare nelle diverse circostanze, siano esse per un problema di salute manifesto oppure per tentare di ridurre quanto più possibile il rischio di svilupparne uno.
Io credo che il ruolo del farmacista come educatore sanitario e punto di riferimento per la gente è cresciuto enormemente e ancora deve continuare a crescere. Il farmacista è chiaramente solo un anello della catena del sistema sanitario come altri, ma a differenza di molti altri ha la fortuna (e l’impegno connesso) di essere a contatto diretto e quotidiano con la gente. Cosa ha a che fare questa idea di educatore con la mia presenza qui in Nepal, o con quelle passate in Benin (Africa)? Molti anni fa mi capitò di sentire una frase, pronunciata da un missionario salesiano, padre Ugo De Censi, operante in un piccolo villaggio sulle Ande peruviane, rimasta impressa nel cuore e nella mente e che in questa “avventura” di missioni-lampo nei paesi del terzo mondo è diventata la mia luce-guida: “Se qualcuno ha fame non dargli il pesce, ma insegnagli a pescare”.
Cosa posso dare io a queste popolazioni? Ha senso che venga qui a svolgere un lavoro, posto che qui posso venirci solo poche volte in un anno e per periodi molto brevi? No, non serve, non ha senso lo faccia io al posto loro, questo servirebbe solo a “lucidare” la mia immagine, raccogliere qualche like (dato che in quest’epoca viviamo) e coccolare il mio ego, ma tutto questo è terribilmente vuoto e sterile se consideriamo che per questa gente la vita prosegue anche dopo che me ne sono tornato nella mia realtà di uomo occidentale! Ciò che posso fare, se davvero voglio che la mia avventura sia proficua, è provare a condividere un po’ delle esperienze che ho vissuto e delle conoscenze che ho acquisito in 27 anni di professione, sia pure in una dimensione del tutto differente da ogni punto di vista. La vera differenza non può farla ciò che vado a fare in quei villaggi, la vera differenza sta nel lasciare una scia, quella del “come fare” (in inglese, dato che viviamo in un’era in cui sembra che tutto debba essere etichettato in questa lingua, il “know-how”), perché noi da questa parte del mondo abbiamo già vissuto, decenni orsono, la realtà che ora questi popoli vivono negli anni 20 del ventunesimo secolo.
“Quando vieni qui, e ti lasci travolgere dai colori, dalle emozioni, dalle vibrazioni che ti colpiscono nel profondo dell’animo quando una sconosciuta ti saluta illuminandosi in un sorriso che dagli occhi arriva dritto al tuo cuore, un pezzo di te rimane qui, e puoi solo tornare ogni tanto per ricongiungerti ad esso!” Ecco, direi di partire da questo semplice elemento. Infatti, proprio così è stato per me quattro anni fa. Ma alla domanda “cosa vado là a fare?”, la risposta ora non può più essere solo questa. Anche, certo, perché un pezzo di me è davvero là, e là io davvero ho la fortuna di poter dire di sentirmi a casa e di essere accolto ogni volta come il fratello che parte e ritorna! Anche, ma non solo!
Se andare in missione e tornare a Bodgaun significasse andare a ricongiungermi con il pezzo di me rimasto là, il rischio sarebbe di stare facendo qualcosa PER ME, inteso come appagamento emotivo, che tocca dolcemente le corde del cuore: è ovvio che tutto questo c’è, perché realmente in Nepal mi sento a casa, ma sarebbe una manifestazione di una sorta di “altruismo egocentrico” che a tendere non può essere costruttivo per questa gente. Andare a fare il farmacista in missione con questa attitudine “altruisticamente egocentrica” potrebbe peraltro anche significare rincorrere un appagamento intellettuale e professionale personale nello riuscire di volta in volta a pianificare e realizzare attività che si traducano in un successo: infatti, grazie alla generosità delle tante persone che mi sostengono da quando ho iniziato questa avventura di “farmacista in missione”, ogni volta, con le donazioni raccolte (assolutamente preziosissime e fondamentali.
Sarà banale, ma senza donazioni e senza fondi non si realizza nulla!), possiamo realizzare campi medici ed attività sanitarie che portano un aiuto prezioso ad una popolazione che della propria salute non sa di doversi e potersi prendere cura (questo è il nodo cruciale: la conoscenza e la presa di coscienza). Ma tutto questo non può e non deve essere solo un piacere, deve essere prima di tutto un dovere etico e morale, sia verso chi sostiene, sia verso chi riceve! Noi sanitari, noi volontari, siamo, io credo, i fortunati che possono tradurre in concreto gli slanci di umanità dei moltissimi che non se lo possono permettere ma che mettono, per quel che possono, il loro cuore al servizio di chi vive in uno di quelli che tante volte ho definito gli “altrove” del mondo.
Cosa si può fare? Che senso hanno queste missioni-lampo?
Un amico conosciuto durante una delle missioni, al ritorno a casa ha scritto una frase paradossale che mi piace moltissimo: “Fare del bene donando agli altri è una delle più alte forme di egoismo, perché quanto diamo nel concreto non è minimamente paragonabile a quanto riceviamo nel profondo”! Penso che il sorriso delle persone, che pazientemente per ore ha atteso il proprio turno in ogni campo medico cui ho partecipato, in Nepal come anche in Benin negli anni precedenti, prima per essere visitate e poi per ritirare i medicinali nelle piccole farmacie di volta in volta allestite, ha illuminato giornate memorabili e scaldato i nostri cuori nel profondo. Da tutte le parti in giro per il mondo, anche qui da noi, nel nostro mondo apparentemente ipercivilizzato, esistono realtà di bisogno, ovunque, ogni giorno; forse ognuno di noi potrebbe provare a cercare nel proprio correre quotidiano un momento per guardarsi intorno e capire come poter aiutare chi ha bisogno: ho avuto la fortuna di poter vivere esperienze travolgenti, di essere entrato a far parte di un bellissimo ingranaggio in cui convogliare anni di professione.
Ogni volta ho ricevuto sorrisi, gratitudine, applicazione, impegno, soprattutto fiducia….e sì, ha ragione il mio amico, ho ricevuto più di quanto in pochi giorni, di volta in volta, ho potuto dare. E ora non intendo più smettere! Perché proprio qui? Perché non da un’altra parte? Serve andare fin laggiù? Mettiamola così: da ogni parte, in qualsiasi momento, ognuno di noi può sperimentare l’esistenza di uno degli infiniti “altrove” del mondo, intesi come ciò che non è il nostro quotidiano, il nostro mondo, la nostra società, ciò che non è il qui e ora in cui viviamo noi e le nostre famiglie; anche qui esistono mille e mille problemi di disadattamento e povertà e bisogno, ma qui, in ambito di salute (che è il mio di competenza ed è l’unico di cui un professionista sanitario può permettersi di parlare) abbiamo l’enorme vantaggio della consapevolezza e della coscienza di ciò che significa “stare bene/stare male”.
Per noi è scontato e banale, ma il primo elemento imprescindibile per poter ricercare le cure è il sapere che esistono le malattie, che esiste tutto un sommerso di disturbi non invalidanti, non abbastanza gravi da rendersi manifesti e da obbligare a correre a cercare assistenza medica immediata, ma che possono portare a conseguenze molto pesanti se trascurati e non affrontati. Ovvio? Scontato? Certo che sì, qui da noi lo è quasi per tutti, è raro incontrare ancora persone che ignorano l’importanza della prevenzione, dei controlli periodici della pressione, degli esami ematici, ecc…. E’ rarissimo incontrare madri che tengono a casa i propri bimbi con sintomi che possano far pensare ad infezioni respiratorie senza farli visitare, muovendosi solo quando la situazione è ormai compromessa. Da noi non succede, in questi “altrove” del mondo sì, e allora può succedere che ti si presenti al centro medico una bambina con una situazione respiratoria e di stato di coscienza gravissima, totalmente compromessa, al punto che nemmeno il ricovero in ospedale ha potuto salvarla! Una polmonite! Perché non si sono mossi prima? Perché, per quanto incredibile possa essere, non sapevano di doverlo fare! Ecco perché noi siamo qui, per insegnare loro che ci si può e deve prender cura di sé!
Nel concreto, in Nepal, il progetto cui sto partecipando mira a mettere a punto un prototipo di farmacia, con l’obiettivo nel prossimi anni (se il progetto riuscirà a proseguire, non ci sono mai certezze in realtà come queste, soprattutto considerando che la maggior parte delle spese, in particolar modo nelle fasi iniziali, è sostenuta grazie alle donazioni) di servire i bisogni di salute di altri villaggi vicini, sempre sotto il controllo centrale della nostra farmacia, che lavora in stretta cooperazione con il centro medico di Bodgaun, che è di fatto un Primary Hospital. Nei villaggi vicini non c’è un centro medico come quello presente qui a Bodgaun, dove potersi recare in caso di disturbi o malanni; inoltre in zone come il Nepal rurale davvero la salute viene considerata come un elemento di secondo piano.
Allora, possiamo comprendere come l’idea non sia molto diversa da quella che nel corso dei decenni passati ha portato all’apertura dei dispensari in località sperdute nelle nostre valli. Le farmacie possono essere, prima ancora che dei distributori di presidi, dei punti di riferimento per la salute: prevenire prima ancora di dover curare, vero principio ispiratore della cosiddetta farmacia dei servizi, evoluzione della realtà farmacia in cui credo moltissimo. La dignità di ogni essere umano, in particolare di ogni “ultimo della terra”, merita lo sforzo di provare a fare qualcosa per insegnare loro a prendersi cura di sé stessi e di ciò che possono avere e ricevere. Donare non basta. “Take care” (“prendetevene cura”): questo ripeto spesso ai ragazzi che lavorano nel centro medico, dopo aver fisicamente spostato e svuotato gli scaffali e le cassettiere della farmacia dove tutto era ammassato alla rinfusa, ed aver rimesso tutto a posto dando un ordine e un criterio, lavorando gomito a gomito con i diversi ragazzi con cui fino ad ora ho collaborato: ragazzi nepalesi, farmacisti laureati, che accettano di lasciare la loro realtà per trasferirsi per un po’ di tempo (purtroppo questo è un problema ad ora non risolvibile) in questa parte del Nepal.
“Prendetevi cura, ragazzi” di ciò che avete per le mani e di tutti coloro che possono e devono capire di poter affidare a voi la tutela della propria salute! Nel corso degli anni, dal 2018, anno della sua fondazione, il progetto-salute a Bodgaun, per una serie di ragioni di ordine organizzativo ma soprattutto di sostenibilità economica (le idee e la buona volontà, da sole, non bastano….), è stato rivisto; questa piccola farmacia vuole essere allo stesso tempo la farmacia di comunità per la gente del villaggio e i suoi bisogni di prima istanza, ma anche presidio di supporto alle attività di un centro medico, vero e proprio gioiellino costruito inseguendo un sogno di futuro, speranza e luce “in the middle of nowhere” (già, nel bel mezzo del nulla. Sono parole di un medico nepalese ospite di un campo medico organizzato a marzo del 2022, stupito di ciò che aveva trovato nel bel mezzo delle campagne del Nepal rurale). Ora, dopo diverse missioni a Bodgaun, il mio coinvolgimento nel progetto è davvero profondo: mi onoro della fiducia delle persone che questo progetto lo hanno iniziato 10 anni fa, dopo il terremoto che nella primavera del 2015 ha devastato il Nepal; sono onorato di questa fiducia che intendo meritare e ricambiare mettendo in gioco le mie competenze, la passione e la voglia di provare davvero a cambiare le cose. La attuale co-gestione con la municipalità rurale ha portato alla crescita del piccolo centro medico nelle gerarchie del sistema ospedaliero del distretto del Sindhupalchik, ma ha richiesto anche la creazione di alcune commissioni (tecnica e amministrativa) per poter condividere strategie e procedure: la partecipazione di esponenti del governo nepalese, di medici locali di grande esperienza e di noi professionisti volontari occidentali, vuole essere il presupposto per un proficuo confronto biunivoco, con l’obiettivo di sviluppare al meglio il progetto salute.
Ma le cose possono cambiare in questa parte del Nepal rurale? Prima ancora…ma siamo sicuri che queste persone vogliano davvero che noi andiamo fin laggiù per portare loro il nostro sapere? A volte mi trovo a riflettere su questo punto e non sono del tutto sicuro di quale sia la risposta migliore. Sicuramente, l’approccio migliore deve essere quello di calarsi nella loro realtà, assaporarla, comprenderla, conoscerne le dinamiche sotto ogni aspetto, perché non basta appartenere alla parte del mondo cosiddetta evoluta per pensare di andare fin laggiù e “predicare” come fossimo profeti. Ogni volta che torno a casa, portando con me un pezzo di questa terra e di questa cultura, provo a spiegare a chi non è mai stato in questi luoghi cosa significhi questo progetto e questa missione, e mi accorgo che le parole non sono né mai saranno davvero sufficienti a far davvero capire cosa di volta in volta ci si trova ad affrontare. Di solito, soprattutto quando parlo con personale sanitario, mi rendo conto che inevitabilmente l’interlocutore applica il proprio paradigma abituale e altrettanto inevitabilmente non capisce! Questi popoli non hanno ciò che noi abbiamo in termini di strumenti, di risorse, di mezzi, ma hanno una grandissima dignità e sarebbe davvero stupido non tenerne conto! Ecco perché a volte sembra che il nostro apporto non solo non sia considerato prezioso, ma addirittura sia vissuto come una ingerenza forzata; noi sappiamo che le cose da un punto di vista procedurale in ambito sanitario possono essere gestite in modo più produttivo, con un obiettivo di diffusione della cultura sanitaria, della consapevolezza e della conoscenza da parte della gente comune molto al di sopra di ciò che è allo stato attuale delle cose, ma sappiamo anche che la cultura locale, le procedure, i protocolli, le conoscenze DEVONO essere conosciute, comprese e interiorizzate, proponendo il nostro modello come una possibile via di implementazione e sviluppo, ma in punta di piedi e con il necessario rispetto. Condivisione di idee, confronto, dialogo, lavoro svolto insieme per poter affrontare aspetti procedurali critici o semplicemente perfettibili, ma partendo da ciò che loro sono stati in grado di produrre, stimolandoli a provare a metterci del loro, senza aspettare che arrivi il prodotto preconfezionato portato da noi occidentali. Possono crescere meglio e molto prima se ci si dedicano in prima persona.
E allora, cosa manca in questo Nepal del 2025? Mancano i pazienti! Il nostro centro è spessissimo vuoto così come gli ospedali e i centri medici di prima necessità del resto della municipalità.
Ma come può essere possibile, se durante i campi medici arrivano centinaia di persone? Io credo che manchi la consapevolezza in mezzo alla gente che ci si può e deve curare, e che esistono segnali predittivi di malattie croniche, segnali che possano aiutare a capire che ci si può e deve rivolgere a centri medici. Manca questa conoscenza e consapevolezza dei sintomi e segnali predittivi, ma manca soprattutto un programma strutturato che porti in mezzo alla gente la cultura sanitaria, e manca, sicuramente, un piano organizzato per prendersi cura e carico dei pazienti affetti da patologie croniche. Noi che veniamo da questa parte del mondo sappiamo che questo aspetto può realmente fare la differenza, perché anche qui da noi, decenni orsono, la situazione era molto simile a questa che ritrovo ogniqualvolta sbarco in questo mondo.
Noi, che ora lavoriamo come sanitari in questo mondo occidentale, siamo assolutamente consapevoli di quanto sia importante “informare”, sviluppando programmi di prevenzione ed educazione e lo stesso vogliamo provare a fare in Nepal! Le missioni non terminano quando lasciamo Bodgaun e il Nepal; termina la nostra presenza fisica ma il vero lavoro di missione prosegue fino a che non avremo raggiunto il risultato che ci siamo prefissati: essere superflui per questa popolazione, per questa gente, per chi lavora in mezzo a loro, essere superflui perché non ci sarà più nulla che noi possiamo mettere a loro disposizione della nostra esperienza e delle nostre conoscenze, perché avranno “imparato a pescare” e il “pesce” saranno in grado di procurarselo, per sé e per tutta la gente che vive in questi meravigliosi posti, là dove davvero la “gente veste solo dei propri COLORI” una ricchezza che noi, nel nostro mondo, forse abbiamo dimenticato e non sappiamo più apprezzare davvero.
E dunque, lo si è detto e ripetuto: fare il farmacista a latitudini così lontane può sembrare un’esperienza totalmente differente, quasi fossero due lavori diversi, ma in realtà ci sono tantissimi punti di contatto, su tutti uno: il paziente e la sua salute, vero e proprio fulcro intorno a cui tutto ruota e tutto viene costruito. Qui in Nepal, come perlatro ovunque in giro per il mondo, ci si rende immediatamente conto di quanto importante possa essere provare a sviluppare una rete che si prenda carico dei pazienti (in particolare dei pazienti cronici) e che li segua (follow-up) nel loro percorso di cura: è lo stesso progetto di cui si parla da anni in Italia con il modello della Farmacia dei Servizi e i progetti proposti nel tentativo di superare le difficoltà create dalla scarsa “compliance” dei pazienti (in parole semplici: il paziente segue poco e male e sicuramente non in modo continuativo le indicazioni terapeutiche del medico prescrittore). Ora, considerando che questo elemento risulta essere ancora oggi uno dei principali motivi di fallimento delle terapie soprattutto per pazienti cronici in un paese come l’Italia dove la cultura sanitaria è, o dovrebbe essere, molto sviluppata, provate ad immaginare cosa possa essere qui, in Nepal, dove tutto ciò che riguarda la salute è invece ancora molto, troppo poco conosciuto.
Perciò, in una realtà così lontana e per molti versi ancora piuttosto arretrata, i principali problemi contro cui ci siamo scontrati sono sostanzialmente due: mancanza di cultura sanitaria e povertà economica. Partire dall’Italia, dove, come detto, l’attenzione alla salute è altissima, dove si parla da molti anni ormai dell’importanza della prevenzione, e arrivare in un paese come il Nepal è un vero e proprio salto indietro nel tempo! Quando dico che manca la cultura sanitaria, intendo che la gente non si cura e non si pone il problema di potersi/doversi curare fino a che i sintomi e i problemi di salute non si manifestano in modo tanto forte da risultare invalidanti; noi, invece, nel nostro mondo cosiddetto evoluto, sappiamo che esiste un vastissimo sottobosco di disturbi o di alterazioni della normale fisiologia (e quindi del corretto stato di salute) che è bene affrontare precocemente per evitare che possano esitare in uno stato di malattia più grave.
I programmi di screening e le campagne di informazione incentrate sul concetto di “prevenzione” sono oggi un fulcro essenziale del sistema sanitario sviluppato nel nostro paese; va detto, peraltro, che nonostante questa attenzione e questa consapevolezza non sempre le cose funzionano, immaginiamoci come possa essere la situazione in un paese dove la cultura sanitaria è ai minimi termini. Sotto quest’ottica, è molto difficile aspettarsi che le famiglie accantonino parte dei loro già esigui guadagni (il tasso di povertà e disoccupazione, o di occupazione spesso sfruttata e sottopagata, è altissimo) in prospettiva di poterne aver bisogno per curarsi in caso di malattia; se poi estendiamo il discorso al trattamento delle patologie croniche (quali ipertensione e diabete, per esempio, ma anche malattie epatiche e renali) che solo in rari casi si manifestano con un quadro sintomatologico grave ed invalidante, questa speranza diventa pura utopia!!
A questo si aggiunga che la sanità in Nepal è per lo più a carico della popolazione, tranne un ristretto elenco di farmaci ritenuti essenziali dalle autorità governative e per questo dispensati gratuitamente in alcuni Health post (una sorta di ambulatorio) dislocati qui e là nelle province. Quindi popolazione povera, che non sa quanto importante sia prendersi cura di sé stessi PRIMA di essere ridotti in gravi condizioni, e che deve spesso affrontare spostamenti lunghi e disagevoli a piedi su sentieri polverosi per recarsi in centri ospedalieri o ambulatori medici! Sviluppare un progetto salute in queste condizioni è realmente molto complesso: la frustrazione di veder fallire diversi tentativi è, a volte, davvero molto pesante, anche perché tutto quanto si basa sulla disponibilità economica garantita dalle donazioni dei sostenitori. Ma questa frustrazione scompare quando ci si trova a ricevere al centro medico pazienti con un quadro di salute fortemente compromesso, mossisi decisamente molto tardi (in alcuni casi, purtroppo, troppo tardi) per aver ignorato i sintomi o aver ritenuto che fosse meglio aspettare e sperare in una risoluzione spontanea evitando una spesa che potesse mettere in crisi l’economia familiare già precaria.
Scrivendo queste righe, nella mente compaiono subito i flash di diversi casi, in particolare due: Sita Mahji, una donna di 46 anni, trasportata a spalle a bordo di una barella improvvisata alle prime luci del giorno nella primavera dello scorso anno, in piena ematemesi (vomitava sangue senza sosta) e con livelli di emoglobina sotto terra; era una paziente con una storia di alcolismo (vera piaga a queste latitudini) nota al centro medico che però non era più venuta ad acquistare le medicine prescritte, ricadendo nei vizi che l’avevano già in passato portata in ospedale. Lei ha smesso di curarsi, ma nessuno del personale medico se ne è accorto e nemmeno interessato! Trasportata in ospedale, è stata salvata per il rotto della cuffia solo grazie all’intervento di Jay Nepal che ha pagato spese che altrimenti non sarebbero state sostenute dalla famiglia. E’ tornata alla sua vita di ogni giorno, miracolosamente salva, ma ignoranza e povertà (e la mancanza di un protocollo di follow up in uso al centro medico) hanno purtroppo ucciso qualche mese fa una donna che non sapeva quanto pericoloso potesse essere continuare a bere (peraltro alcool spesso di pessima qualità) con un fegato già colpito e una condizione di varici esofagee, causate da epatopatia susseguente all’abuso, pronte a sanguinare pericolosamente in modo improvviso.
Ukesh Tamang, una bimba di 5 anni, proveniente dalla lontana Gaikharka (quasi un’ora di jeep su strade sterrate da Bodgaun) e trasportata in auto dai parenti, giunta al centro medico con un quadro sintomatologico troppo grave e troppo avanzato (difficoltà respiratorie e sintomi di sofferenza neurologica, chi li ha visti almeno una volta nella vita non se li scorda più!): una polmonite trascurata da diversi giorni se l’è portata via il giorno dopo. “Come si può morire di polmonite a 5 anni nel 2023?”. Questa la domanda che in quei giorni ci è rimbalzata nella mente. Ma chiedersi il perché o fermarsi a piangere o gridare di rabbia dinanzi a cose che non vorresti mai vedere non serve a nulla se non si cerca una soluzione che possa evitare a un altro padre e un’altra madre di piangere una bimba non destinata da malattie pregresse o da sindromi genetiche a dover morire così piccola! Anche in questo caso, l’ignoranza dei sintomi predittori, la mancanza di denaro e la carenza di infrastrutture facilmente accessibili sono state la causa principale di quanto accaduto.
Il lavoro principale DEVE essere quello di sensibilizzare la popolazione parlando di salute e di malattie, e andare in mezzo alla gente per intercettare i problemi di salute prima che diventino troppo gravi. Un passo alla volta si può fare tanta strada, ma si deve iniziare a camminare e si deve stabilire un obiettivo e una rotta per raggiungerlo. Bisogna lavorare per creare una rete-salute al cui centro venga messo il paziente. Nel concreto, come detto, il nostro progetto è quello di creare una stretta cooperazione tra i diversi attori del sistema sanitario locale, sia nel villaggio di Bodgaun (staff del centro medico e farmacia), sia con i diversi Health post e i piccoli ospedali nelle vicinanze (col patrocinio e la collaborazione di alcuni di essi abbiamo realizzato campi medici in diversi villaggi del distretto del Sindhupalchock, da Bhimtar a Gaikharka, da Bhotsipa a Jholunge fino alla piccola Bisdeutar, solo per citarne alcuni): questa cooperazione è finalizzata a tradurre nel concreto quella visione di sanità che da noi viene spesso declamata (ma, ahimè, assai poco realizzata nel concreto), ovvero un unico sistema integrato (“ONE HEALTH”) che vuole prendersi cura dei pazienti come focus principale (“HUMAN CENTERED”), sia per le problematiche croniche, sia per gli eventi acuti: per fare questo, vogliamo implementare le visite domiciliari e gli screening sul territorio, in mezzo alle case e ai villaggi (i “FIELD VISIT” se i pazienti non vengono al centro, andremo noi da loro!).
Parallelamente vogliamo sviluppare sempre più i programmi educazionali soprattutto nelle scuole, per dare alle generazioni future una consapevolezza di sé stessi e della loro salute che i loro genitori oggi non hanno. E’ un progetto ambizioso, che si scontra sia con le reticenze dei locali a cambiare le proprie abitudini in nome di una visione che per loro è sconosciuta, sia per i ritardi dovuti a carenze di strumenti e fondi, e sia perché tenere in piedi un progetto collaborando per la quasi totalità del tempo da remoto non è affatto semplice. Inoltre, il continuo turn-over di personale sanitario ci costringe ogni volta a ripartire da capo nel dialogo e nella condivisione di progetti e idee. E’ un progetto ambizioso, ma ne vale la pena! Perché vengo fin qui? Per donare un pochino di ciò che so fare, e prendere quel tanto di umano che ricevo ogni volta che ritrovo “casa” tra questi sassi, questi colori, questi profumi , questi sorrisi. Namasté, Nepal. Il mio, il nostro lavoro non finisce qui!