Ode al Palio, tra nebbia e magia

Il racconto del nostro Manini di questo spettacolare scatto alla Costa del Palio, una visione mistica che emerge dalla nebbia.
24 Dicembre 2022

Nuova puntata della rubrica “Vi racconto una fotografia” curata da Filippo Manini, musicista valdimagnino, direttore del Coro CAI Valle Imagna, compositore, educatore, amante della sua terra e da qualche anno appassionato di fotografia (qua il suo profilo Instagram se volete vedere i suoi scatti). Buona visione e lettura!

Della bellezza della Costa del Palio non si finirebbe mai di raccontare. Le terre alte che fanno da spartiacque tra l’impluvio d’Imagna e la riservata terra di Morterone hanno sempre un che di magico e ancestrale. Saranno i segreti antichi che conservano, di alpeggi e scambi, vita e lavoro d’altura, sarà l’andamento sensuale che interrompe la verticalità dolomitica del Serrada a nord-ovest e gli spalti della Tisa e del Pralongone a sud-est, la Costa del Palio su di me ha sempre esercitato un’attrazione senza nome e senza oggetto, un puro richiamo istintivo, quasi carnale, e mistico insieme.

Su antiche carte topografiche la zona figura come “Costa della Paglia”, il che fa luce sulla vocazione di pascolo e di terra di lavoro che quei dolci declivi hanno sempre avuto. Ma la nobiltà che le offre questa vocazione è arricchita da un sapore quasi mistico conferitole anche dalla conformazione geomorfologica che apre sull’infinito. Morbide colline modellate dagli elementi e dal carsismo che anche qui opera silenzioso – avete mai visto la dolina salendo alla destra del passo? – aprono ad “interminati spazi”, a sud sulla perfetta simmetria d’Imagna, a nord sugli spalti di Grigne, Legnone, Zuccone Campelli, Baciamorti e compagnia, a far da preludio alle alpi, a est verso la corona delle orobie, a ovest sulla roccaforte del Serrada.

Nel microcosmo della “Piacca” – così pure la si chiama dai tempi antichi -, ad accentuare questo aspetto sacrale, sta la presenza di sparuti alberi che interrompono la continuità del pascolo. Non parlo delle abetaie a mezza quota, piantumazione posticcia e pure un po’ fuori contesto. Parlo di quelle presenze solitarie che si stagliano sui prati sopra la linea netta della foresta. Faggetti e betulle in particolare concentrano in sè bellezza, fragilità, nobiltà e trascendenza, con il tremolare delle foglie nei venti stagionali, al soffio degli aliti degli dei che sul Palio passeggiano.
Bene, ora prometto che smetterò i panni Leopardiani/Stoppaniani e tornerò in me.

Le esplorazioni fotografiche del Palio ormai non le conto più, tanto quella terra mi ispira, se non si fosse ancora capito. Il Palio è meraviglioso in tutte le stagioni e da tutte le angolazioni, dalla Bocca di Palio, che è dove il sentiero fa crocicchio e permette di salire al Resegone dalla normale oppure proseguire per le Forbesette, o percorrere la cresta della Piacca, ai pascoli di Valmana fin sotto il panettone dello Zuc de Valmana.

Ci fu un pomeriggio dello scorso inverno che un nebbione fitto fitto copriva la valle come fosse un coperchio di feltro. Dal basso guardando in su si vedevano gli spalti calcarei di Suercorna confondersi con la bruma e svanire (sì, lo so, ogni tanto ricompare Leopardi, portate pazienza). Meteo perfetto per foto quindi. Si badi, la nebbia è affascinante per la fotografia quando funziona da quinta teatrale, ossia quando scandisce lo spazio in profondità e diffonde bagliore. E questo funziona se è nebbia nervosa, che non se ne sa star ferma, gira e rigira, s’aggrappa ai rami secchi e poi se ne libera. Se è nebbia stagnate, pur bella, dopo un po’ stanca. Cifra del vivere, che star fermi nella zona sicura è comodo, ma dopo un po’ ti lascia scontento, se non c’è evoluzione dell’essere. Scontento e smarrito.

E in effetti, smarrimento mi prese mentre camminavo più o meno in zona Piazza, che la coltre parea muraglia e la dritta via era smarrita (dopo Leopardi e Stoppani non vuoi scrivere “alla Dante”?), se non fosse che il bàrek che solca imponente il pascolo fino alla bolla sotto la pineta mi dava flebile direzione, coperto com’era dalla neve. Decisi allora di guadagnare più velocemente altura, fin su allo Zuc di Valmana – al Cöch, come lo si usa pure chiamare – per vedere se magicamente riuscissi magari a spuntar sopra le nebbie. Tornai indietro fino alla carrozzabile e presi a salire annaspando nella neve fin su a quella che ho sempre sentito nominare come “La baita dol dutùr Vanoncini”.

Ma nulla, le nebbie persistevano e non accennavano a muoversi. Biancogrigio ovunque, sopra nebbia, sotto neve; a interrompere quella monotonia solo le figure ovattate di scheletri d’alberi e la sagoma oscura della stalla. Il freddo cominciava a penetrarmi nei vestiti; scattai qualche foto minimale nelle nebbie e fui sul punto di rientrare, che già si faceva tardi. Poi venne quel momento. Quello in cui hai sistemato tutto nello zaino, te lo sei messo in spalla, sei pronto a partire per il rientro ma indugi un istante con lo sguardo e i sensi tutti, per portarti a casa il più possibile di dove sei stato. È l’indugio della contemplazione.

Credo che un fotografo di paesaggi affini lentamente un senso per il valore del tempo e dei microcambiamenti della luce. E la sua prima dote allora diventa la pazienza, lo “stare” in mezzo al continuo fluire dell’essere. Saper modulare l’attesa, contemplare il cambiamento e prepararsi al momento opportuno che senti sta arrivando. Mi scattò questo meccanismo quando vidi un barlume nella nebbia, un riflesso diverso a nord-ovest. Un’inflessione della luce dal grigio al giallo, poi all’arancione. Se ne sparì subito, ma mi diede giusto il tempo di intrevvedere le dolci curve del Palio. La nebbia si stava muovendo.

Presi a salire di corsa verso lo Zucco quasi certo di ciò che mi attendeva. Sorvolo sul mio annaspare nella neve da muflone azzoppato, poco elegante certo, ma efficace. Alla malga Cucco già l’arancio dominava il gradiente luminoso dell’atmosfera, quindi accellerai, montai a vista sul promontorio, che del sentiero chissenefrega, e fu un tutt’uno il mio arrivare alla croce e l’aprirsi del cielo. Mi investi la luce del vespro e il suo sobrio tepore invernale. Le nebbie si erano abbassate, il Serrada mi guardava sornione mentre dava l’ultima spallata al giorno, il Palio emergeva come una visione mistica dalle nebbie. Il Sol Invictus celebrato fin dalla notte dei tempi tornava a trionfare sulla tenebra e ridava vita a tutto. E poi scoprìi che non ero solo. A contemplare la scena vidi più in basso, alle pendici dello Zucco, quattro figuri, composti, che pure si godevano il tepore e il miracolo della luce d’inverno, quattro vegliardi a sentinella del Palio. Dopo un periodo indefinito di beatitudine, scattai, consapevole che quelli sono istanti tanto unici quanto effimeri. E questo è lo scatto che ne venne. Che, se v’aggrada, data l’occasione, vuole essere il mio personale scatto di auguri.

costa del palio - La Voce delle Valli

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