Nelle famiglie tradizionali delle nostre valli, la nascita di un vitellino, o meglio di una femmina, era motivo di gioia e segno beneaugurale. La stalla era in “fioritura” e su quel bucì si proiettavano nuovi progetti per la bergamina in sviluppo. Quasi come avveniva per la nascita di un figlio, tutto il gruppo parentale ne usciva rafforzato. Finalmente venivano fugate per sempre tutte le preoccupazioni del Tata che qualcosa potesse andare storto.
Questa sensazione di rinascita complessiva si vive ancora oggi nei piccoli allevamenti di montagna, dove le vacche fanno parte, con la famiglia, di un’unica dimensione umana e ambientale. Ogni vacca ha un nome e quando una di esse partorisce, e quasi come se partorisse una donna della famiglia. Ripeto il “quasi” perché sono consapevole delle differenze e, a questo proposito, mia moglie, rinforza i molteplici distinguo. Le vacche continuano a rappresentare le speranze del gruppo parentale e sono al centro di tanti interessi, non solo economici. L'altro giorno Bella, una grigio-alpina dal pelo chiaro, che tende al bianco, ha partorito una vivace vitellina: Fiore sarà il suo nome e Francesco pensa di allevarla, per ricavarne, tra meno di due anni, un’altra vacca da latte per la sua stalla. Di norma si selezionano solo i capi migliori, mentre gli altri sono destinati alla vendita e al macello, in relazione alle varie opportunità che di volta in volta si presentano. In montagna gli spazi sono limitati e la selezione è una necessità.
Il parto della vacca segna la conclusione di una lunga attesa: nove mesi dal concepimento, come avviene per la donna. Bella era stata inseminata con metodo artificiale, utilizzando una fialetta di sperma congelato e conservato in un apposito contenitore di azoto liquido che possiede Daniele, un altro allevatore del villaggio, proprietario di una mandria consistente: il seme proviene da un toro, sempre di razza grigio-alpina, selezionato sulla linea latte. Tra allevatori ci si aiuta sempre. Ormai sono poche le stalle che, desiderose di mantenere un certo distacco dalle opportunità offerte dalla moderna tecnologia, allevano il proprio toro. La grande maggioranza degli allevatori è ormai orientata all’inseminazione artificiale, la quale, di volta in volta, consente di scegliere il tipo di seme, anche di razze diverse, in relazione agli obiettivi da perseguire. Quando, ad esempio, l’intenzione è quella di ottenere un bovino da carne da vendere al commerciante nelle prime settimane di vita, si utilizza il seme del toro di razza Blu belga, la cui carne è oggi molto richiesta sul mercato. Allo stesso modo in cui attualmente, per una piccola azienda di una decina di capi, non è facile sostenere i costi per provvedere in proprio all’inseminazione artificiale (che presuppone l’acquisizione di un patentino e l’acquisto dell’apposito contenitore dei semi), così un tempo, sino ad alcuni decenni or sono, il toro lo possedevano solamente le “bergamine” più importanti. Per i piccoli allevamenti non era conveniente e questi si avvalevano, a pagamento, della monta taurina. Ovviamente nei nostri villaggi di montagna non c’era molta scelta: si trattava sempre di un toro di razza bruno-alpina allevato da un bergamino di professione, che dichiarava di metterlo a disposizione anche per i piccoli allevamenti locali, che ne erano sprovvisti. Francesco sta allevando un toro di razza grigio-alpina (Marchino il suo nome) che incomincerà a “saltare” dalla prossima estate.
Di norma le vacche venivano fecondate nel periodo tardo autunnale e invernale, programmando quindi il parto tra la fine dell’estate e il primo autunno, quando la piccola mandria era ancora al pascolo, o da poco rientrata in stalla, quindi sciolta e allenata ai movimenti, e le condizioni climatiche favorevoli. Il nuovo fieno era ormai raccolto sul fienile e ci si poteva dedicare di più alla gestione delle vacche, che nel periodo invernale entravano nella fase della piena lattazione. La giovane manza, ü primaröl, veniva inseminata di norma intorno ai ventiquattro mesi di vita, in modo da prevedere il primo parto poco prima del compimento dei tre anni di età. Ma poteva essere portàda al tòr anche prima, intorno ai diciotto mesi, in relazione al grado di sviluppo del quadrupede e all’esigenza della famiglia di disporre presto di nuovo latte.
Quando la vacca o la manza la ‘gnìa al tòr, ossia muggiva ed era agitata, saltava addosso alle altre e produceva la tipica secrezione, significava che era in “calore” e, di conseguenza, bisognava provvedere quanto prima a portàla al tòr. Non era un’operazione semplice perché capitava di dover percorrere anche diversi chilometri per raggiungere la stalla dove c’era il toro, magari anche in un altro villaggio: quando il papà era all’estero per lavoro, questo compito veniva svolto dalla mamma, la quale, dopo ìga fàcc sö ol mösal con d’öna còrda, sempre con la gambìsa al collo per ogni evenienza, la conduceva verso la meta. La mamma davanti, la mucca dietro, legata alla corda. Bisognava armarsi di una buona dose di energia e di coraggio per portare a termine l’incombenza.
Il coraggio non le mancava, sostenuto dalla necessità di far fronte a situazioni improrogabili, se solamente pensiamo che, già nei primi anni Ottanta, la robusta massaia guidava il trattore. Giunta a destinazione, poi, di solito la vacca si legava con la corda corta a una pianta, in prossimità della stalla dove c’era il toro (che un tempo si teneva sempre in stalla, legato alla catena). Si cercava di tenere ferma il più possibile la vacca, lasciando invece il toro più o meno libero di provvedere a fare il suo dovere. So l’fàa saltà almeno dò o trè ölte. Non sempre la monta andava a buon fine, anche a causa dell’irrequietezza o della resistenza della vacca: in tal caso la monta si sarebbe ripetuta più volte, attendendo sempre le manifestazioni di calore dell’animale. La mamma ogni volta si doveva rimettere in cammino con la sua vacca da portà al tòr. Quando proprio la vacca la restàa öda, ossia la tüìa sö mia de fà, nonostante i ripetuti tentativi di inseminazione, significava che l’ìa stèrla e, di conseguenza, andava venduta il più presto possibile. Nella tradizione locale, tanto l’inseminazione naturale della vacca, quanto il parto, venivano tenuti lontani dagli occhi dei bambini, ai quali non era dato sapere cosa stava avvenendo e tanto meno assistere a tali eventi, che per loro rimanevano avvolti nel mistero.
Dall’inseminazione sino al parto, la vita della vacca viene costantemente monitorata dal piccolo allevatore. Soprattutto in primi mesi bisogna fare attenzione che la bàte mia fò: il proprietario se ne accorge al momento della spassàda, quando en de la cöneta dol rüt trova il feto espulso. Se la vacca è al pascolo, invece, non è così facile comprendere quanto sta accadendo. In tal caso, bisogna ricominciare da capo, attendendo la successiva fase di calore della vacca per ritentare l’inseminazione. Poi, man mano che la gravidanza procede, aumentano le preoccupazioni. Due mesi prima del parto viene interrotta la lattazione, quindi la vacca non viene più munta, e nelle settimane successive l’animale è al centro delle attenzioni dell’allevatore: la osserva ogni volta che entra nella stalla, cerca spiegazioni circa suoi comportamenti: ne cura la piena alimentazione, ne interpreta, di volta n volta, ol römià, ol mögià, ol pestà.
Avvicinandosi, poi, la settimana prevista del parto, l’irrequietezza del quadrupede, lo scalciare, l’ingrossamento delle mammelle (mitì dó ol pècc) e soprattutto il rilassamento delle fasce del bacino, quando cioè la àca la scoménsa a molà i curdù, mettono in allerta il contadino. Töcc i moméncc iè bù! Da questo momento la vacca è costantemente sotto osservazione: ol nóno e l’passàa de nociàde fò en de la stàla, cociàt dét en dol paèr, perchè gli spostamenti sono sempre stati difficili in montagna; pure la mamma, dotata di automobile, si alzava anche quattro o cinque volte, durante la notte, per raggiungere la stalla e assicurarsi del regolare avanzamento delle doglie preparatorie del parto. Ogni volta si fermava in stalla, sentàda dó söl madrìl de la traìs, o söl scàgn, almeno una mezzoretta ad osservare il comportamento del quadrupede. Non mancavano le invocazioni a Sant’Antonio Abate, la cui immaginetta compariva appesa so l’ös de la pòrta, e la richiesta di intercessione rivolta ai pòer mòrcc de la cà. La fiducia era tanta, il coraggio pure, ma le preoccupazioni si facevano sentire, soprattutto quando il parto si protraeva anche oltre quindici giorni dalla data prevista: in tal caso la mamma la teràa fò da la gaiòfa dol sò begaröl ü mechèt de pà benedèt, oppure ö scartusì de sal fàcia benedì apòsta. Tutta la famiglia viveva la situazione e partecipava all’attesa.
Durante la nostra infanzia, era di norma la mamma ad assistere al parto della vaccherella, ma all’occorrenza si faceva aiutare da altri allevatori del villaggio più esperti, soprattutto si avvaleva della forza maschile, nell’ottica di dovere “aiutare” la venuta alla luce del vitellino, come per trascinarlo fuori dal ventre materno. Nella stalla preparava tutto l’occorrente: olio, disinfettante (allora usava il mercurio di cromo), corda di canapa e stanghèt. Quando la vacca la pirdìa i aque – ossia, rompendosi le membrane, fuoriusciva il liquido del sacco amniotico che, come un palloncino, contiene il fluido in cui è immerso il vitellino – bisognava provvedere senza indugio. Occorreva la forza nella stalla e gli uomini, preavvisati, accorrevano. Verificavano innanzitutto la posizione del nascituro, raggiungendo con il braccio, cosparso di olio, l’interno della vacca, attraverso il canale uterino. Una volta accertata la posizione corretta di uscita del vitellino, disposto coi pistì e ol müsì dal denàcc, si cercava di favorire il parto.
Attualmente Francesco lascia alla vacca il tempo necessario per completare l’espulsione, senza intervenire anzitempo, privilegiando la conclusione del parto nel modo più naturale possibile. La generazione della mamma, invece, era più determinata e l’obiettivo prevalente era quello di far nascere prima possibile il vitellino: si legavano le zampe del vitellino, che sporgevano dal canale uterino, con una corda di canapa, munita all’estremità de ü stanghèt – un bastone trasversale – che ne favoriva la presa. Nei parti più difficili, di una primipera ad esempio, oppure quando il nascituro si presentava particolarmente grosso, poteva essere necessario l’intervento anche di due o tre uomini, per “trascinarlo fuori”. Se il nascituro si presentava in posizione podalica, sorgevano problemi a volte insormontabili, che un tempo potevano portare anche alla morte dell’animale. Non mi soffermo ora su alcune tecniche esperienziali, messe in atto per tentare di girare il feto, che non sempre avevano successo. Tre settimane or sono, nella stalla di Francesco, Gute, una giovane grigio alpina, è stata protagonista di un parto gemellare: mentre la femmina è nata normalmente, il maschio, in posizione podalica, è stato estratto dai pistì posteriori, rischiando di provocare la morte del vitellino, ma non c’era alternativa. Oggi vivono entrambi e stanno bene, ma sono destinati alla vendita: nei parti gemellari la tradizione vuole che le femmine siano stèrle, quindi non utili da allevare.
Ogni vacca cerca la sua posizione per il parto: c’è quella che sta in piedi, mentre l’altra si distende nella lettiera. La cönèta dol rüt, dopo averla ben ripulita, viene riempita con abbondante fogliame, sino a predisporre un giaciglio sicuro per il nascituro. Il vitellino, appena nato, infatti, disteso in quel letto vegetale, viene immediatamente asciugato con fogliame, strame e fieno, massaggiandolo da capo a piedi, per sollecitare le funzioni vitali, quindi ripulito anche degli ultimi residui di liquidi che gli sono rimasti in bocca.
Il secondo vitellino nato recentemente dal parto gemellare di Gute, podalico, faticava a reagire, non si rialzava e pareva morto. Immediatamente Daniele e Francesco gli hanno gettato addosso dell’acqua fredda, specialmente sul muso e nelle orecchie, massaggiandogli contemporaneamente ed energicamente il torace e stimolandone il movimento delle zampe. Probabilmente aveva ingerito del liquido, nel ritardo del parto. Ancora non si riprendeva. Bisognava tentare il tutto per tutto! Dopo averlo appeso a testa in giù, agganciato con i pistì posteriori a ü rampì de la stala, hanno continuato a massaggiarlo sul torace, per tentare di favorire l’espulsione dei liquidi che aveva ingerito. Finalmente pian piano il vitellino ha ripreso le sue funzioni vitali e il giorno dopo saltellava vispo dentro il suo piccolo recinto. In quei frangenti nella stalla è un susseguirsi veloce di azioni determinate, coordinate ad alta voce dall'allevatore che guida e comanda tutti i presenti. Antiche soddisfazioni che si rinnovano nelle nostre stalle dopo ogni parto felicemente concluso.
Fortunatamente la maggior parte dei parti avviene regolarmente, ma la mamma ripete sempre che besógna ès sémpre proéscc al caso. So l’sà mai! Comportamenti, regole non scritte ma imperanti, modi di fare si trasmettono da una generazione all’altra e ogni volta si confrontano con le nuove indicazioni. Il ricorso al veterinario durante il parto è raro. Gli allevatori si aiutano tra di loro e mettono in atto pratiche di intervento antiche, che il più delle volte risultano essere efficaci. A seguito del parto, dopo aver bene disinfettato il cordone ombelicale residuo con tintura di iodio, il vitellino viene ancora oggi deposto accanto alla madre, che lo lecca in continuazione, stimolando così la circolazione sanguigna e riscaldandolo. Nel frattempo gli viene somministrato, a mezzo del ciùcio, il latte appena munto, ricco di colostro: ne può bere a volontà la prima volta, anche uno o due litri, mentre dal pasto successivo (due al giorno: mattina e sera), le razioni seguiranno indicazioni dietetiche abbastanza restrittive durante le prime settimana di vita. Il colostro, un latte denso, granuloso e di colore giallastro, non viene utilizzato per la caseificazione nei cinque o sei giorni successivi al parto. Dopo circa un mese e mezzo avviene lo svezzamento: attualmente Francesco non è così restrittivo e lascia che i vitellini, dentro i loro piccoli recinti, incomincino ad annusare e a mangiare un po’ di fieno, mentre il nonno, durante il periodo della lattazione, evitava che il vitellino mangiasse fieno, foglia o qualsiasi altra cosa che trovasse per terra, e quindi ricorreva all’uso di un piccolo mösàl, il più delle volte costruito da lui stesso, utilizzando un retino di ferro di riciclo, che gli fissava sul musetto a mezzo di una cordicella di canapa.
Attualmente i biberon, nell’emulare la forma della mammella, hanno semplificato la lattazione artificiale, ma un tempo non era sempre facile abituare il vitellino a bere il latte dal secchio: bisognava invitare il vitellino a succhiare il dito indice della mano, che gradualmente veniva immerso nel secchio contenente il latte. Così facendo, un po’ alla volta, il piccolo bovino è portato a bere da solo. Dopo poco più di un mese di lattazione, poi, il latte materno viene gradualmente diluito con acqua, infine sostituito completamente con latte artificiale, fino ai primi pasti di fieno. Diversi piccoli allevatori di montagna preferiscono, alla lattazione artificiale, quella naturale: in tal caso attaccano subito, dopo la nascita, il vitellino alle mammelle della vacca-madre e così continuerà ad alimentarsi nei mesi successivi, sino allo svezzamento. Ogni vacca la gh’à ol sò istìnto e alcune di esse, quando si sottraeva loro il vitellino, muggivano in continuazione, come per richiamarlo, e soffrivano al punto tale da terà sö ol làcc, ossia per alcuni giorni limitavano o addirittura interrompevano la produzione di latte. Sino a pochi lustri addietro, quando il vitellino incominciava ad alzarsi e riusciva a stare in piedi autonomamente, anche dopo un’ora dalla nascita, questi veniva legato con una catena alla mangiatoia, accanto alla madre, mentre attualmente viene immesso nel suo recinto in ambiente separato.
Subito dopo il parto, quando la vacca è adagiata sulla lettiera, viene sempre fatta alzare, quindi le si somministra un sostanzioso bierù – beverone – che serve per ridarle forza e animo. La mamma teneva sempre pronto ol sò butigliù pié de ì e zöcher. Subito dopo le dava da bere anche ‘mpó de aqua culdìna, per ötàla a netàs bé. Nei giorni successivi la bovina andava sostenuta con una particolare alimentazione e, al fieno o all’erba, seguivano ‘mpó de pà sèc e de panèl, che stimolavano anche la produzione di latte. Oggi si fa uso di mangimi. La fase del parto termina con l’espulsione della placenta, che di norma avviene nelle prime ore successive. Seguiva, dunque, un altro periodo di attenta osservazione della vacca, da parte dell’allevatore, per accertarsi che, oltre alla placenta, la batès mia fò pò a’ la mare – con prolasso dell’utero – che poteva portare alla perdita della bovina; in questo modo la se defetàa, ossia diventava stèrla. Si tentava il tutto per tutto, ossia, in tale evenienza, si reintroduceva l’utero, dopo averlo disinfettato con acqua e asìt, e, per evitare una seconda espulsione, si impediva la fuoriuscita a mezzo di robusti teli di canapa, sostenuti da un’imbragatura di cinghie e corde.
La stalla di Francesco conta oggi tre vitellini sotto il mese di vita. Altre tre vacche sono prossime al parto e, se tutto procederà bene, entro due mesi arriveranno altrettanti piccoli bovini. Ogni parto è un’avventura e non si sa cosa ci riserva, ma è proprio questo senso dell’imprevedibile a caratterizzare non solo il momento della nascita, ma tutta l’esistenza successiva, tanto degli animali quanto degli uomini. Per ogni vitellino Francesco elaborerà presto un progetto, destinandoli al macellaio, allo zio, alla nonna, all’amico allevatore, ad altri acquirenti. Per sé tratterrà una femmina, che alleverà e andrà a incrementare la sua stalla di grigio-alpine.
Testo scritto da Antonio Carminati, direttore del Centro Studi Valle Imagna