L’ultimo inserto domenicale de L’Eco di Bergamo (Nóter, 16 febbraio 2020), magistralmente curato da Marco Dell’Oro, tra le altre cose ha messo in evidenza il valore della famiglia nata dal matrimonio, un istituto molto presente nella tradizione, forse un po’ meno sentito e vissuto nella modernità. Ritorno su questo argomento, uno dei nodi cruciali dell’organizzazione sociale dei villaggi montani di ieri e di oggi, una sorta di anello di congiunzione tra l’individuo e la comunità.
La famiglia – si dice – è lo specchio della società, in quanto riflette le condizioni economiche e culturali della vita di un popolo, esprime i suoi fondamenti materiali e spirituali, ne interpreta e trasmette valori e obiettivi. Soprattutto nel passato, dal Medioevo e per tutto il millennio successivo, sino ai nostri giorni, la famiglia è stata determinante nel processo di formazione delle comunità locali sulle Orobie: aggregazioni di famiglie formavano vere e proprie coalizioni di potere per rivendicare autonomie territoriali e decentramento di funzioni, costruendo così contrade, dando vita a cappellanie e municipi, configurando la geografia politica che appare ai nostri giorni.
All’interno di ciascuna comunità locale, nell’espressione delle attribuzioni civili e religiose, era il consesso dei Capi-famiglia ad esercitare il più alto livello di rappresentanza e a prendere le decisioni cruciali per tutto il gruppo: eleggeva il prevosto (quando questi era ancora di nomina popolare) e i Sindaci del villaggio, stabiliva le principali opere da fare. In diversi antichi estimi, nei quali si cita il Convocato dei Possessori, per i singoli villaggi sono indicati i “fuochi” (i focolari, ossia i gruppi familiari), più che gli abitanti, e la proprietà afferiva alle famiglie, non ai singoli individui. Se da un lato il raggruppamento di famiglie ha sempre costituito la vera forza sociale ed economica dei villaggi, sott’altro aspetto rafforzava e valorizzava i singoli membri che in essa si sentivano rappresentati, aiutati e protetti. Ciascun individuo era come incardinato nella propria struttura parentale, soprattutto i componenti maschili, cui era affidato il compito di perpetuare la discendenza, mentre le donne avrebbero incrementato gli scambi matrimoniali e quindi rafforzato le alleanze con altre famiglie. Alcuni storici hanno messo in evidenza il ruolo fondamentale e imprescindibile della famiglia nella costruzione delle varie tappe del progresso sociale ed economico delle comunità rurali. Richiamo con piacere, ad esempio, il recente pregevole studio del professor Giovanni Pederbelli sulle origini e le vicende della famiglia Petrobelli di Bedulita, come pure la monumentale ricerca del professor Paolo Manzoni, che sarà presto pubblicata dal Centro Studi Valle Imagna, nella quale il noto ricercatore mette in luce come la storia della Valle Imagna sia strettamente connessa alle vicende delle principali famiglie che l’hanno abitata nei secoli.
La culla della famiglia, il suo riferimento fisico principale, è sempre stata la Cà (casa), il cui vocabolo, in molti casi, è diventato il prefisso seguito dal cognome del gruppo parentale, definendo così un unico elemento toponimico: Cà Berizzi, Cà Personeni, Ca Petrobelli,… La Cà ha rappresentato lo spazio privilegiato di espressione della famiglia, più che l’ambito di residenza del singolo individuo, e nell’organizzazione degli spazi interni ha nettamente prevalso la dimensione collettiva rispetto a quella personale, i beni di tutti rispetto a quelli di ciascuno, in un ambito aperto di cooperazione e condivisione di oggetti, spazi, ambienti, attività. Nelle case e nelle contrade si viveva insieme, organizzati per gruppi, poiché la montagna non si è mai prestata per la vita solitaria e le comunità rurali hanno saputo costruire soluzioni insediative comuni, aggregate, efficaci e durature.
Solitamente inserita in un contesto produttivo, accanto alla stalla, alla bottega o al piccolo laboratorio artigianale, la Cà conserva ancora oggi sembianze semplici o anche assai complesse, in relazione alla capacità espansiva della famiglia e della sua forza economica: l’affermazione del gruppo parentale, arricchito da scambi matrimoniali e da attività produttive, ha determinato in molti casi anche la trasformazione del contesto insediativo, con l’accorpamento di diversi edifici contigui, sia ad uso abitativo che di servizio per il ricovero di animali e del foraggio. Il prestigio delle famiglie più facoltose si manifestava anche nella capacità di far crescere e sostenere la vocazione religiosa di un presbitero all’interno del gruppo, costruendo nella contrada pure una cappella. A Corna Imagna, ad esempio, i quattro oratori nelle rispettive contrade di Brancilione, Regorda, Canito e Corna sono stati edificati dalle famiglie più influenti del villaggio: Locatelli, Moreschi e Berizzi. La famiglia ha rappresentato nei secoli un grande contenitore sociale organizzato, in grado di esprimere e rappresentare gli eventi più importanti della vita dei suoi membri, dove venivano conservati e trasmessi valori, tradizioni, competenze, abilità, conoscenze, esperienze, identità parentali e di luogo. Un vero centro propulsore di nuova umanità.
Nel passato la famiglia era così presente nella vita di tutti i giorni di ciascun individuo che non c’era bisogno di sapere cosa fosse: esisteva e basta, anzi era difficile, quasi impossibile, intraprendere percorsi professionali e sociali più ampi al di fuori di essa e della sua sfera d’influenza. La famiglia costituiva una dimensione naturale. I singoli membri si inserivano nel solco professionale e nell’esercizio delle varie attività scavato dalla famiglia, che dava l’impronta e l’indirizzo unitario a tutto il gruppo, evitando in tal modo di disperdere energie preziose in mille rivoli. I tempi sono cambiati: si parla sempre meno di famiglia, soprattutto la si sente poco e quindi non viene sostenuta e difesa. Una male interpretata modernità ha spostato il baricentro dalla famiglia all’individuo, dal gruppo esteso e solidale a quello nucleare, dalla terra alla fabbrica prima e ai servizi poi, dalla montagna alla città, dalla periferia al centro, dal risparmio (anche di territorio) al consumo, dalla dotazione di servizi collettivi a quelli esclusivi dell’individuo,… e via dicendo.
Non è fuori luogo oggi chiedersi cosa sia la famiglia. La sua esistenza e i suoi significati non sono più un fatto scontato. L’anagrafe ci dice che si tratta semplicemente di un nucleo sociale rappresentato da due o più individui che vivono nella stessa abitazione, non necessariamente legati dal vincolo matrimoniale o da rapporti di parentela o di affinità. Il concetto, molto annacquato, la considera una delle tante aggregazioni di fatto, come lo sono ad esempio le unioni civili o le convivenze, indebolendone il suo apparato costitutivo. La famiglia tradizionale era molto di più: ben strutturata, esprimeva diversi altri contenuti fondanti irrinunciabili, come la nascita dal matrimonio, il legame del vincolo di sangue che si esprime attraverso la discendenza, la cooperazione sociale ed economica dei suoi componenti, la riproduzione. Nella società rurale della montagna orobica, soprattutto nei villaggi sparsi sulle nostre montagne, solamente una struttura familiare rigida, ben compatta, dalle solide relazioni e chiare competenze interne, fondata sul sistema patrilineo e sul rispetto dell’autorità parentale e dalla gerarchia delle funzioni, ha consentito agli individui di sopravvivere e di superare le difficili contingenze economiche e sociali, soprattutto nei periodi di crisi, guerre, carestie. La sua forza era riposta soprattutto nella trasmissione verticale di funzioni e competenze, in continuità storica con le generazioni passate. Quanti esempi potremmo citare. Evidentemente al giorno d’oggi la famiglia si attesta su una struttura più orizzontale.
La famiglia estesa di Pietro Carminati, nato nella seconda metà dell’Ottocento, abitante fò a i Stale, un insediamento rurale situato a ponente della contrada Canito di San Simù, nei primi anni Quaranta del secolo scorso, in piena guerra, era composta da oltre venti persone: Piéro, il capostipite (mio bisnonno), i suoi due figli Jàcom e Lüìgie (mio nonno) con le rispettive giovani spùse, Emma ed Elvira (mia nonna), originarie rispettivamente delle contrade Sìa e Bötèla dello stesso villaggio, e una folta schiera di nipoti ancora in tenera età. I due fratelli Jàcom e Lüigì hanno avuto rispettivamente ben dodici figli, per la precisione sette femmine e cinque maschi ciascuno.
Il periodo di maggior espansione della grande famiglia del bisnonno ha coinciso con l’inizio della sua scomposizione, quando cioè diventava concretamente difficile sostenere ulteriormente la coabitazione e la gestione economica unitaria di tutto il groppo, sia per l’elevato numero dei componenti, sia a fronte di ulteriori motivazioni interne che premevano per la divisione. In genere le spùse rivendicavamo maggiore autonomia e così pure i ragazzi che si affacciavano all’età del lavoro. Un vecchio detto popolare recita: Trè spuse en d’öna cà le ‘ndà mia decòrde: öna la fà la spusa, chèl’ótra la fà la s-cùa e l’ültema la ì ìnciodàda sö la pòrta! Piéro, l’anziano capostipite, non era sordo a tali istanze e, dal vertice della struttura parentale estesa che rappresentava, aveva da tempo deciso di costruire una nuova casa, in vista di riorganizzare la successiva separazione della sua famiglia in due gruppi, ciascuno dei quali rappresentato dai suoi figli. Si preparava cioè a favorire la generazione di due distinte famiglie. Così ha fatto e il destino ha voluto che ol Piéro trovasse la morte una tarda sera, sulla strada del ritorno da Saiàcom, il villaggio sottostante, dove si era recato per saldare il conto all’impresa che aveva provveduto a costruire la nuova casa.
Cadde rovinosamente in un canalone, mentre saliva da Rucbesöl e venne ritrovato solo l’indomani. Non è stata una cosa facile la trasformazione dell’unico gruppo esteso in due famiglie separate, che per Jàcome Lüigì ha coinciso con la divisione delle proprietà ancora indivise del Tata. Era un’operazione necessaria per dare sviluppo ulteriore alle rispettive famiglie, traghettando i diversi membri da un’organizzazione ormai satura e completa a una nuova dimensione suscettibile di sviluppo. Per alcuni anni nella nuova casa sö la Còsta de Canìt ha vissuto Jàcom con la sua famiglia, ma successivamente, in base a ulteriori accordi, si è trasferita la famiglia dol Lüigì: era un andirivieni di ragazzi, su quel tratto di mulattiera, carichi di masserizie per il trasloco e chi scendeva si incrociava con chi saliva.
La testimonianza mette in evidenza la complessità della struttura parentale e la sua tensione evolutiva. Non era semplice governare una simile organizzazione parentale estesa, soprattutto per l’intreccio di numerose relazioni orizzontali e verticali. Le funzioni di spicco erano quelle di Tata e Mare, Regiùr e Regiùra, che rappresentavano il motore della famiglia rurale. La potestà di indirizzo della famiglia spettava al Tata (anche nella sua funzione di misìr nei confronti delle spuse della casa, le nuore), ma anche alla sua sposa, la Madòna, nei rispettivi ambiti di influenza e di comando. Quando, però, queste espressioni più elevate della famiglia rurale, in ragione dell’età avanzata, ormai fuori dai circuiti lavorativi e produttivi del gruppo, non erano più in grado di provvedere concretamente e con efficacia all’amministrazione della famiglia, si avvalevano di altre figure, quelle del Regiùr(di norma uno dei figli maschi, non necessariamente il più anziano) e della Regiùra (la sua spusa, ma a volte anche una mèda, ossia una donna del gruppo rimasta nubile). Essi avevano funzioni esecutive, per l’amministrazione della famiglia, con l’autorità di esercitare azioni di comando sugli altri componenti, sempre il linea con le direttive impartite dal Tata. Di norma ol Regiùr sovrintendeva ai lavori esterni (nel prato, nel bosco, nella stalla), rappresentando la famiglia nella comunità, in assenza del Tata, mentre la Regiùra si occupava prevalentemente delle faccende domestiche, esercitando le sue disposizioni soprattutto nei confronti delle altre donne della casa, e deteneva l’unica cassa del gruppo, nella quale confluivano tutti i guadagni e i risparmi dei vari membri.
Anche dopo il matrimonio, in costanza della coabitazione, i figli maschi continuavano a consegnare al Tata i guadagni delle loro campagne lavorative all’estero, che confluivano nell’unico bilancio della famiglia. Sui figli maschi ricadevano le responsabilità maggiori per il sostentamento degli altri componenti del gruppo e per la continuità del casato, attraverso il matrimonio, con l’introduzione in famiglia della spusa e il successivo avvio della fase della procreazione. La figura della spusa era in posizione subordinata non solo nei confronti del marito, bensì anche del Tata, del Regiùr e della Regiùra, degli altri figli maschi e persino delle diverse donne della casa, le quali – si diceva – le ‘gnìa dó da i scale, mentre ad essa gh’ìa tocàt ‘gnì en cà da la pòrta! Non era facile superare l’iniziale situazione di estraneità. La spusa veniva come incardinata nella nuova famiglia e la fede che portava al dito ne provava l’appartenenza: con l’espressione ferà la spusa si intendeva dichiarare che, dal momento del matrimonio, quella donna avrebbe cessato di fare riferimento alla sua famiglia d’origine. Era solo la donna a portà la ìra, poiché l’uomo rimaneva già vincolato alla sua famiglia dalla linea di sangue. Aveva così inizio per la spusa il periodo più difficile del suo primo inserimento nella nuova famiglia del marito, decisamente in posizione subordinata, con nuovi compiti, attribuzioni e spazi da esplorare. Ma nel contempo essa costituiva il prodromo per la formazione di una nuova famiglia rurale, che non avrebbe tardato a svilupparsi, staccandosi nei lustri successivi dalla famiglia-madre, per dare spazio alla propria autonoma espansione e alle esigenze della figliolanza in età da lavoro. Senza l’organizzazione della famiglia sarebbe stato impensabile per l’individuo sostenersi autonomamente in montagna, come, più in generale, nelle aree rurali.