Per secolare tradizione ancora oggi, la seconda domenica di settembre, tutta la Valle Imagna manifesta solennemente la propria devozione alla Madóna de la Cornabüsa (Madonna della Cornabusa). Ol festù de la Madóna (La grande festa della Madonna) continua a rappresentare una delle manifestazioni religiose più sentite e vissute dalle popolazioni dell’Imagna. A questo LINK il programma completo della festa di quest'anno.
Nei contadini prevaleva l’intenzione religiosa di ringraziamento per i benefici che la stagione più proficua dell’anno, quella estiva della raccolta dei frutti, aveva offerto, e avrebbe ancora assicurato con la vendemmia e la produzione ormai prossima di noci e castagne. La festa della Cornabüsa, infatti, può essere considerata l’evento per eccellenza della Valle Imagna, che ogni anno si rinnova e rafforza, nei gruppi sociali sparsi nelle molte contrade, la dimensione collettiva e l’appartenenza alla medesima storia sociale, religiosa ed economica. La Cornabüsa continua a rappresentare oggi, proprio come più di cinquecento anni fa, nei primi decenni del sedicesimo secolo, il principale centro di riferimento religioso, dentro il catino montano dominato dal Resegone, uno dei principali fondamenti dell’identità locale. Alla Cornabüsa ci tornano tutti, credenti e agnostici, poiché quel luogo magico, come un’oasi di pace immersa e isolata nel verde aspro dei rigogliosi boschi cedui della valle, continua a trasmettere valori universali carichi di spiritualità e di umanità. Come grondano di umanità le belle pagine di letteratura dedicate alla Cornabüsa scritte nel 1922 da Don Cesare Carminati, pubblicate nel volume “La Valle Imagna e la Madonna della Cornabusa”, ristampato in anastatica dal Centro Studi Valle Imagna.
Il culto mariano è molto diffuso in tutta la valle, ricco di celebrazioni. Diversi edifici religiosi, chiese parrocchiali, oratori e tribüline (edicole religiose) sono dedicati alla Madonna, nelle sue diverse espressioni: l’Assunta, l’Addolorata, del Rosario,… In particolare, l’effigie dell’Addolorata della Cornabüsa è stata posta al centro delle ricerche degli storici, cantata dai poeti e illustrata dai letterati, raffigurata da artisti in opere di pregio e assai diffuse nel panorama rurale, fatta oggetto di devozione popolare, con preghiere e suppliche, novene ed ex voti, da parte di boscaioli e bergamini, tornitori e carrettieri, massaie e contadini,… Protagonisti, oggi come allora, sono sempre loro: giovani e ragazzi, uomini e donne, adulti e anziani, ammalati, emigranti e soldati, persone semplici e colte, povere e ricche, ciascuna con il proprio bagaglio di vita, preoccupazioni e speranze.
Nella società rurale della valle, la Madonna della Cornabüsa costituiva un canale diretto d’intercessione presso la divinità e il suo culto era trasmesso sin dall'infanzia. Tra le orazioni che i fanciulli recitavano giornalmente non mancavano la Salve Regina e l’Ài Maréa a la Madóna de la Cornabüsa (Ave Maria alla Madonna della Cornabusa), con lo sguardo rivolto verso il Santuario. I genitori si preoccupavano di portare i bambini, apéna teràcc fò (non appena svezzati), alla Grotta, per presentarli davanti a la Madóna de la Aldemàgna (alla Madonna della Valle Imagna), invocando su di essi protezione e benedizione. Negli anni a seguire, poi, i ragazzini piö ìf, col spìret en dol sàng (più vivaci, con lo “spirito” nel sangue), che manifestavano cioè comportamenti particolarmente vivaci, venivano accompagnati in pellegrinaggio sino al santuario per fài benedì denàcc a la Madóna (farli benedire davanti alla Madonna), la quale avrebbe provveduto aiutandoli a rientrare in armonia con gli uomini e in grazia di Dio. Questo avveniva soprattutto quando la semplice benedisiù dol preòst (benedizione del prevosto) non aveva prodotto gli effetti desiderati e il ricorso alla Madonna della Cornabüsa – come in un giudizio di secondo grado – costituiva un fatto conseguenziale.
Per sostenere e amplificare gli influssi benefici, ad esempio per ottenere la guarigione da malattie, oppure la grazia di fronte ad un evento atteso, difficile e insperato, le famiglie o alcuni componenti di esse praticavano novene al Santuario, dove si recavano tutti i giorni in preghiera, anche per uno o più mesi, di continuo, ininterrottamente. Molti effettuavano il pellegrinaggio verso la Grotta sacra a pì biócc (a piedi nudi), percorrendo anche diversi chilometri per raggiungere dalle rispettive contrade il Santuario. Dio solo sa quanti pellegrinaggi, rigorosamente a pedi nudi, sono stati effettuati e quante invocazioni popolari hanno raggiunto l’Addolorata nella Grotta per ottenere guarigioni da malattie, il ritorno a casa dei soldati in guerra, la protezione degli emigranti sparsi in terre lontane per lavoro, la conclusione positiva di un matrimonio o di una maternità, …
La devozione alla Madóna de la Cornabüsa accompagnava il fanciullo nelle varie fasi dello sviluppo, sino a diventare un costante punto di riferimento religioso e sociale nei momenti più significativi della sua esistenza. Si iniziava con la festa per ol falò a la Madóna (grande fuoco alla Madonna), ma poi, con il passare degli anni e l'incalzare dei problemi che assillavano l’esistenza nel contesto rurale, l'individuo stabiliva connessioni sempre più concrete e vitali co la sò Madóna (con la sua Madonna). Soprattutto sul piano spirituale, essa si identificava con la funzione materna (la “Madre celeste”), un elemento cardine della struttura familiare, in grado di riassumere e rappresentare i bisogni e le aspettative di ciascun figlio, al punto da assumere addirittura tutte le funzioni decisionali nell'organizzazione della casa, in mancanza della figura maschile, quasi sempre lontana per lavoro.
Il ragazzo che si accingeva ad affrontare una nuova stagione lavorativa in paesi lontani, nella sua alìs de cartù (valigia di cartone), preparata con cura dalla mamma, inseriva sempre ol madunì de la Madóna de la Cornabüsa (il “santino” raffigurante la Madonna della Cornabusa), mentre nella gaiòfa de bràghe (nella tasca dei pantaloni) portava appresso un sassolino staccato dalla Grotta, che avrebbe toccato e rigirato tra le mani, nel corso della stagione lavorativa, come si fa con la corona del Rosario, durante le invocazioni personali e silenziose nelle situazioni di bisogno. Alla sua partenza assisteva vigile la madre, pronta a sopperire a qualche dimenticanza: öna mà sol có, per mètega bé a pòst e caèi, e öna spolveràda (una mano sulla testa, per sistemargli i capelli, e una spolverata) con le proprie mani sö la giüba (sulla giubba), come per toccare quel corpo che in un certo senso le apparteneva e che doveva ancora proteggere, costituivano semplici e profondi gesti di commiato. Non baci, né abbracci. Al suo rientro, poi, in autunno inoltrato, terminata la “campagna” lavorativa all’estero, quel ragazzo, dopo essersi presentato orgoglioso d’innanzi alla mamma, nei giorni successivi non mancava de ‘ndà a la Cornabüsa (di andare alla Cornabusa), per ringraziare la Madonna di averlo preservato dalle malattie e protetto dai pericoli. Il pellegrinaggio al Santuario, infatti, oltre all'aspetto devozionale, svolgeva anche funzioni propiziatorie, per vìga 'na gràsia (per ottenere una grazia), come pure era concepito quale ringraziamento per pericoli scampati o fortune conquistate. Ancora oggi nella Grotta spiccano, appesi sulla nuda roccia, centinaia di ex voto, gran parte dei quali assai recenti, mentre i più antichi rimasti sono conservati nel piccolo museo allestito nella ex Casa del Romito, dove ci sono pure la cancelleria del Santuario e un ristorante.
Durante le settimane a cavallo tra agosto e settembre, nelle contrade dei villaggi sui versanti dell’Imagna, era un fermento di bambini e ragazzi che i vàa a spì (andavano a raccogliere rovi e sterpaglie), per accrescere la catasta del falò che avrebbero acceso la sera, sull’imbrunire, della vigilia della grande festa settembrina della Cornabüsa, la solennità che vede ricomporsi ancora oggi tutta la valle in un’unica comunità, per un sentire diffuso e radicato attorno alla pietà dell’Addolorata custodita nella Grotta sul monte. Nelle varie contrade fremevano i preparativi per l’allestimento del rituale grande fuoco: armati di ràscc e furche, corlàs e rastèi (tridenti e forche, roncole e rastrelli), i più giovani ripulivano strade e sentieri, tagliando rovi, estirpando erbacce, raccogliendo stràm (strame) e fogliame da ammucchiare sulla grossa catasta che si stava formando, con orgoglio dei partecipanti, destinata ad assumere anche forme imponenti. Le donne della casa le netàa fò ol spassacà (ripuliva per bene il solaio), trasportando presso la grossa catasta oggetti di legno rotti o in disuso da bruciare.
Il falò si ripeteva, tutti gli anni, nello stesso posto, non troppo distante dalle abitazioni, solitamente in prossimità di una tribülìna dedicata alla Madonna, a fianco di una strada di pubblico transito, con la disponibilità di un'area a prato nelle vicinanze in grado di ospitare le persone delle case vicine; ciascun fuoco, inoltre, cercava di porsi in posizione preminente sulla valle e soprattutto visibile dal Santuario. Compatibilmente alla conformazione morfologica del territorio, i vari fuochi, accesi nelle diverse contrade, dovevano possibilmente confrontarsi “a vista”. I gruppi di ragazzi, infatti, attivavano una sorta di spontanea gara intorno ai rispettivi falò, per vèd chèl che döràa de piö, o chèl co la fiàma piö ólta (per osservare quello che durava di più o quello che provocava la fiamma più alta).
All'imbrunire, uno dopo l’altro i fuochi venivano accesi, creando sul territorio una molteplicità di fumaiole e aloni di luci sparsi qua e là, tanto sui versanti quanto nel fondovalle, che diffondevano un comune sentimento di condivisione identitaria. La spettacolarità dell'evento dava l'immagine di una valle che stava bruciando, talmente erano diffusi e numerosi i falò, mentre i roboanti frastuoni provocati dallo scoppio dei mortèr (mortai), in periodi più recenti delle rochète (razzi e fuochi artificiali di uso domestico), che i vari gruppi festanti si scambiavano da öna còsta a l'ótra (da un versante all’altro), davano l'impressione di un festeggiare rumoroso nella notte.
I più grandicelli sparavano le bombe al carburo, che un tempo veniva usato nelle lampade ad acetilene: inserito nella lattina vuota dell’Olio Sasso, ad esempio, bene incassata in una buca nella terra bagnata, tale contenitore di latta diventava una specie di camera di scoppio. Avvicinata la fiamma, con un pezzo di carta arrotolata, al foro della lattina, questa provocava un potente scoppio, dal rumore roboante, mentre il contenitore si trasformava in un proiettile e i giovinetti facevano a gara per vedere chi riusciva a spedirlo più in alto. Si trattava di un gioco assai pericoloso, che ogni tanto provocava incidenti anche gravi.
Le case e le principali strade delle contrade, ma pure la Chiesa e il campanile, le tribülìne, venivano illuminati da una moltitudine di lümì (lumini) accesi nella notte, come se quella magica vigilia avesse il potere di scacciare e sconfessare le forze malvagie e tenebrose che di norma vivono avvolte e nascoste nel buio più pesto. Quella notte era sconfitta dalla luce. Gh’ìa mia öna cà che l'ìa mia paràda fò… (Non c’era una casa che non era addobbata…), raccontano gli anziani, rimasti ancora saldamente agganciate alle antiche tradizioni.
Le famiglie della contrada si radunavano attorno al falò, dove recitavano insieme in Rosario. Le donne, con lo sguardo rivolto alla Cornabüsa, vigilando nel contempo sui più piccoli del gruppo che giocavano attorno al fuoco, richiamavano la presenza dei loro cari – padri, mariti e figli – ancora lontani per lavoro all’estero. Gli anziani, seduti nel prato, col toscanèl (toscanello) tra le mani, conversavano circa gli impegni rurali eseguiti o ancora da compiere. Nel frattempo un adulto, armato di ràscc, teneva viva la fiamma, scaricando su quell’ammasso incandescente nuove forcàde de spì (forcate di rovi), le quali alimentavano il vigore del fuoco provocando lunghe lingue di fuoco verso il cielo, accompagnate da continui scoppiettii e dalla diffusione di faville e piccoli tizzoni ardenti nei dintorni. Improvvise vampate di calore insopportabile allontanavano anche le perone più audaci e vicine alla catasta bruciante. Tra luci e ombre, canti e balli improvvisati attorno al grande fuoco, racconti e storielle narrate ai piccini, si consumava in spirito solidale ed esultante la serata sino al compimento dell’evento, quando per terra rimaneva un grande esteso braciere ardente. Gh’ìa reàt l’ùra de ‘ndà a lòs (E’ giunta l’ora di andare a dormire). Lo sfavillio delle fiamme de falò e lümì (grandi fuochi e lumini), unitamente al festante rumoreggiare di botti, suoni di campane e gruppi di giovani in allegria, rappresentavano gli elementi esteriori più significativi che caratterizzavano la sera della vigilia della grande ricorrenza, costituendone l'anticipato trionfo.
La grande festa dell’indomani al santuario vedeva partecipi gli abitanti di tutta la valle: dalle contrade, gruppi di giovani e famiglie intere s’incamminavano in pellegrinaggio, già di buonora, sulla mulattiera. Giunti ai piedi del Santuario, dopo aver superato le abitazioni di Cà Contài (contrada abitata ai piedi del Santuario), i pellegrini si ricomponevamo e seguivano l’ultimo tratto del percorso di ascesa, superando le sette tribülìne in atteggiamento di preghiera. Era un convergere di istanze religiose e sociali. Il pellegrinaggio costituiva anche un motivo di festa, seppure sostenuto da un senso generale di devozione e di adesione a un sentimento religioso partecipato dalla comunità: chèl dé besognàa ‘ndà a confesàs, ‘ndà a Mèsa e fà la cuminù (quel giorno era d’obbligo confessarsi, andare a Messa e ricevere l’Eucarestia). Si riflettevano sì i doveri dei parrocchiani, ma i pellegrini coglievano pure l'opportunità per vivere un giorno in compagnia. Favorito dall’estesa partecipazione popolare, il Santuario diventava un privilegiato luogo di incontro per gli abitanti della valle, dove gli stessi avevano la possibilità di ampliare la rete di relazioni interpersonali.
I gruppi familiari, dopo aver partecipato alla Santa Messa, consumavano un pasto frugale al sacco, con semplice pà e mortadèla (pane e mortadella), accomodandosi alla meglio nel pascolo adiacente al Santuario, in attesa di partecipare ai Vespri pomeridiani, mentre i giovani coalizzavano in compagnie spontanee e festanti. Infine, dopo la Benedisiù (Benedizione eucaristica), che chiudeva la grande festa, appena fuori dalla Grotta, sopra un palchetto ligneo, un pubblico banditore vendeva all’incanto i vari doni ricevuti dai pellegrini, il cui ricavato andava a beneficio del Santuario. Il rito dell’incanto era un tempo assai diffuso in tutti i villaggi della valle, in modo particolare a conclusione delle principali solennità, quando il concorso popolare e la partecipazione dei devoti raggiungevano i più alti livelli. Per la Cornabüsa ciò è documentato in un prezioso disegno didascalico risalente al diciottesimo secolo.
Non tutti, a festa conclusa, prima di incamminarsi lungo la mulattiera, che li avrebbe portati a casa, potevano permettersi l’acquisto di una medaglietta ricordo, raffigurante l'effigie della Madonna, mentre i più si accontentavano di un frammento di roccia raccolto nella Grotta, che portavano appresso quale prezioso monile e sacro amuleto. Le donne, invece, le portàa a cà ‘mpó de aqua benedèta de la Madóna (portavano a casa un po’ di acqua benedetta della Madonna), raccolta dalla sacra fonte, da usare come sacramentale nei momenti particolarmente difficili, per alleviare le sofferenze e scacciare gli spiriti maligni, a protezione della casa e dei suoi abitanti. C’era anche chi faceva benedire ü scartusì de sal (un piccolo cartoccio di sale), per fronteggiare le eventuali malattie degli animali rinchiusi nella stalla, e raccoglieva, sulla strada del ritorno, avvolto nel panèt (ampio copricapo di stoffa), ‘mpó de spulverì, il rosso terriccio di sabbia che si accumulava dietro le cordonate della strada selciata, da utilizzare per sghörà i marmète de ram (pulire e lucidare le marmitte di rame). Lungo i tornanti della mulattiera c'erano le bancarelle dei dolciumi, qualche rudimentale giocattolo, anche arredi e attrezzi per la casa (padèle, brös'ce, róba de bràss,… – padelle, spazzole, stoffa…) o per la campagna (corlàs, rastèi, sigür… – roncole, rastrelli, asce…).
Dunque, anche in questo caso, mondo vecchio, mondo nuovo! Perché la devozione alla Madóna de la Cornabüsa si rigenera in continuazione, determinando, pure nell’epoca della modernità, un rifiorire di processioni, fiaccolate, pellegrinaggi, novene e ricorsi alle sue Grazie…
Testo scritto da Antonio Carminati, direttore del Centro Studi Valle Imagna