Nuova puntata della rubrica “Vi racconto una fotografia” curata da Filippo Manini, musicista valdimagnino, direttore del Coro CAI Valle Imagna, compositore, educatore, amante della sua terra e da qualche anno appassionato di fotografia (qua il suo profilo Instagram se volete vedere i suoi scatti). Buona visione e lettura!
Non vi è nulla di nuovo nel dire del potere regressivo della fotografia. Innanzitutto, cosa significa regressivo? Regredire è verbo mutuato direttamente dal latino regredi e significa letteralmente camminare all’indietro, tornare sui propri passi, ritornare ad un livello precedente. A pelle tutto ciò che è legato ad una regressione ha un sapore negativo; questo perché siamo figli (schiavi?) di un contesto sociale che ha fatto della performance e della competizione l’approccio basico alla realtà. Per cui se uno resta indietro, su qualsiasi fronte, si è tentati di attribuirgli sostanzialmente un deficit esistenziale.
In realtà la regressione è a suo modo cosa buona. Chiunque di noi, quando evolve in qualcosa, prima fa uno scatto all’indietro, come a trovare un luogo sicuro per poi ripartire verso qualcosa di nuovo. La fotografia, come qualsiasi altra forma espressiva che colpisca i sensi (pensate alla musica, ai profumi) ha un copioso potere regressivo. Banalmente, pensate allo sfogliare il classico album dei ricordi di famiglia. È come tornare alla propria infanzia, riassaporare quelle sensazioni. E questo a livello esplicito. C’è anche un livello più implicito: pensate a fotografie o immagini che apparentemente non c’entrano nulla direttamente con la vostra storia personale, eppure innescano il moto regressivo. Un paesaggio, un volto, una situazione che vi riporta ad un momento arcaico della vostra vita, ad uno spazio-tempo archetipo cruciale per la vostra esistenza, capace di raccoglierla e darle significato.
A tal proposito vi segnalo la splendida opera “Equilibrio” di Irene Facoetti, fotografa valdimagnina con la “F” maiuscola, finalista al Driving Energy 2023, premio di fotografia contemporanea che quest’anno aveva come tema l’Elogio dell’
Equilibrio. Irene ha costruito un viaggio fotografico regressivo improntato a ricomprendere un fondamentale rapporto della sua vita, quello con sua nonna, e, con lei, con le sue radici, con la sua stessa esistenza. Nel mio piccolo, nelle mie produzioni ho una spiccata tendenza regressiva. Credo che il fatto di fotografare paesaggi con un certo stile abbia in sé la tacita ricerca di qualcosa di antico della mia esistenza.
E quando fotografo, a volte la ricerca si fa esplicita. Mi capita talvolta di voler riproporre vedute che altri prima di me hanno effettuato, e che mi “arrivano” particolarmente. Parlo di artisti come Battista Mazzoleni, Dante Frosio, Pepi Merisio. Oppure delle vedute pittoriche di Vittorio Manini. Quando qualcuno sente il mio nome per la prima volta, non è raro mi chieda se siamo parenti; non lo siamo, almeno direttamente, ma io sto sempre sul vago: mi piace lasciare la cosa nel mistero. Però, parentele a parte, mi piace pensare che entrambi siamo affascinati dal paesaggio della nostra valle d’origine.
Vittorio Manini è celebre per lo più per la sua produzione sacra e ritrattistica. Ma a me hanno sempre colpito anche le sue vedute, perché escono dalla retorica sacra, e regalano una dimensione più intima. Riportano ad una sua visione del mondo come luogo familiare, luogo d’origine, radici. Sono, per l’appunto, regressive. Lo scorso autunno son partito una mattina per andare in zona Piazzo (familiarmente detta “La Bissinia”) a far foto alle nebbie del mattino. La luce mattutina autunnale è luce di taglio, e riverbera nelle nebbie e nei colori della stagione decadente. Di ritorno mi sono poi fermato in una deserta piazza Mazzoleni. Vista dalla Taverna ‘800, la chiesa era volume oscuro che si stagliava sulla luce nascente a est. Mi è venuta in mente una veduta del Manini fatta pressapoco da questa angolazione (anche se da più in alto, probabilmente dal terrazzo della Taverna).
Ho scattato. Con l’idea di confrontarmi poi con l’illustre conterraneo. E infatti, tornato a casa, le due vedute coincidevano, seppure il Manini deve aver dipinto a fine inverno, con gli alberi totalmente spogli. Ecco allora lo scatto che vi racconto oggi, abbinato al suo dipinto. Il caso ha voluto che ci fosse una persona in piazza, proprio nel punto in cui anche lui dipinse degli ignoti astanti. Curiose coincidenze. Mi piace pensare che entrambi abbiamo voluto catturare la luce in cerca regressiva di ciò che parla di noi, di ciò che siamo stati e che siamo ora, di come portiamo sempre con noi le nostre radici, che raccontano nel profondo il nostro essere.