Il mistero della donna che visse di sola Eucarestia

L’incredibile storia di Maria Janis da Vertova, vissuta nel Seicento a Zorzone di Oltre il Colle e processata dall’Inquisizione a Venezia.
16 Marzo 2019

Lo scrittore istriano Fulvio Tomizza, nel 1981 pubblica il libro “La finzione di Maria”. Fra i documenti del Sant’Uffizio, conservati nell’Archivio di Stato di Venezia, l’autore si era imbattuto negli atti di una causa svoltasi negli anni 1662-1663, raccolti sotto il titolo “Finzione di santità”. Il dibattito era contro Maria Janis, della diocesi di Bergamo, processata insieme col suo curato e maestro don Pietro Morali con l’accusa di sostenere falsamente il “privilegio” concessole dal Signore e cioè di essere
vissuta per anni senza mangiare, cibandosi soltanto ogni giorno dell’Ostia consacrata.

I protagonisti di questo racconto appassionante e coinvolgente, non sono una finzione letteraria bensì due persone realmente esistite: Maria nata in una povera famiglia di Colzate, frazione di Vertova nel 1632; don Pietro, parroco di Zorzone con la fama di guaritore. Di loro non abbiamo ritratti perché quattro secoli fa le foto non esistevano e i dipinti erano riservati ai ricchi; abbiamo però la descrizione di Maria Janis fatta da un suo contemporaneo: “bella, grassa, rossa, bianca, una bella figliola amorevole”.

Aveva anche un po’ di gozzo ma si trattava di deformazione molto comune in questa terra e in questi tempi: non a caso Gioppino, antica maschera bergamasca, ne aveva tre molto vistosi. Leggendo questa storia incredibile, nasce il desiderio di conoscere gli ambienti dove Maria Janis ha vissuto la sua vicenda umana e spirituale. Uno dei primi luoghi che vogliamo menzionare è Serina, il paese più grande fra quelli situati nella zona di confine tra la Val Brembana e la Val Seriana. Qui troviamo un edificio che ebbe un ruolo determinante nelle scelte della giovane di Vertova: il convento per ragazze povere. La costruzione, iniziata nel 1643 quando Maria Janis aveva 11 anni, terminò nel 1675, quando il suo destino si era ormai compiuto.

Viene spontaneo pensare che se i soliti intoppi che rendono eterna la costruzione di opere pubbliche non fossero un vizio italiano di antica origine, la sorte di Maria sarebbe stata ben diversa. Infatti sarebbe entrata in convento, come da ragazza sognava, e avrebbe adattato la carica di devozione, in lei ardente, alla disciplina che si chiedeva a una suora. Invece fu una irregolare, tentò una santificazione per conto proprio, si appoggiò a un uomo di chiesa che unì il suo zelo a quello di lei, la sua ambizione a quella di lei; e questo, in tempi in cui la chiesa della Controriforma richiamava all’ordine i fedeli con l’impietoso strumento dell’Inquisizione.

Il nostro viaggio prosegue verso un luogo dove si forma la singolare vocazione di Maria: Zorzone, gran bel posto panoramico di poche centinaia d’anime, frazione di Oltre il Colle. La vita del paese, qui, è concentrata intorno alla chiesa. “Nessuna meraviglia se la nascita e la crescita di queste popolazioni, di poche parole ma di profonda sapienza popolare, siano strettamente legate alla storia della propria chiesa: la parrocchia. Fino alla prima metà di questo secolo era l’unico luogo di incontro, ove la mente era arricchita di sana dottrina, il cuore allietato dalle sagre popolari, lo spirito alimentato dalle celebrazioni liturgiche”.

Ammirando la bella chiesa parrocchiale di Zorzone scopriamo che il campanile, del Cinquecento, è più antico di Maria Janis, mentre il resto dell’edificio è stato ricostruito nel Settecento. All’interno troviamo una statua della Madonna del 1627: chissà quante volte si sarà inginocchiata a pregare davanti a quella statua. Il particolare che dice tutto è la cintura sostenuta dalla mano destra della statua. Questa è la Madonna della Cintura, festeggiata ogni anno dal 1627 il giorno di Ferragosto. È l’emblema della Confraternita di Maria Vergine della Consolazione della Cintura, che non a caso aveva trovato fra i suoi più zelanti sostenitori don Pietro Morali, parroco di Zorzone ai tempi di Maria Janis.

Don Morali avvicinando alla confraternita molti valligiani, aveva suscitato le ire dei parroci vicini che si vedevano portar via troppe pecorelle dall’intraprendente collega. Il buon pastore d’anime, per placare il malcontento dei confratelli e per far conoscere finalmente il “dono” di Maria, si rivolge all’arciprete di Dossena, vicario foraneo che presiede a tutti loro ed ha giurisdizione fino nella Valtellina, e gli illustra il fatto straordinario sul quale da oltre un anno non nutre alcun dubbio. L’anziano parroco di Dossena finge stupore e interessamento sollecitando don Pietro a comunicare l’ottima figliola fino all’ormai prossima visita pastorale del nuovo vescovo Monsignor Gregorio Barbarigo. Il neo eletto fa il solenne ingresso nella diocesi il 27 marzo 1658 e dopo aver iniziato la lunga visita pastorale nell’arco montuoso del bergamasco in settembre, giungerà a Zorzone il 7 ottobre. Accadeva spesso che, durante le visite pastorali, i parroci stessi, o altri religiosi, esponessero al vescovo il caso di donne capaci di prodigi, di creature fervidamente religiose che riuscivano a vivere nutrendosi solo di ostie, spesso sofferenti di gravi malattie ma sorrette da una fede eccezionale.

Il Barbarigo da parte sua le definiva mulierculae (donne adulte dei ceti inferiori, povere e ignoranti) e, forse, ne trasse argomento per diffidare di donne ispirate, troppo dedite a forme religiose esaltanti, anche se non prese mai provvedimenti diretti in merito alle “santone” inquisite, quali la nostra Maria Janis. Il Barbarigo agì con cautela; senza indulgere allo spiritualismo, rispettò il valore di una ricerca di perfezione individuale, purché tradotta in opere di carità visibili e accertabili.

Continuando la nostra esplorazione nel piccolo borgo di Zorzone, ripercorriamo i vicoli ripidi e stretti del paesello come nel 1600. Il cielo in estate è limpido, i prati sono verdi e lucenti e il sole riscalda gli animi. Nessuno, da queste parti, sa nulla di Maria Janis. Si raccontano storie locali, trasmesse dai tempi dei tempi, ma d’altro genere. Dopo pochi passi troviamo un fienile dove immaginiamo abbia trovato ospitalità Maria Janis quando visse i suoi primi anni a Zorzone. C’è il silter: dieci gradini per andare sotto terra e poi ecco una stanza piccola, buia e umida: sembra impossibile che la gente possa vivere in un luogo così eppure Maria ci ha vissuto. Lì, analfabeta, imparò a leggere i testi sacri così da poterli trasmettere ai ragazzi del luogo che don Pietro le mandava perché fossero catechizzati. Lei, umilissima filatrice, imparò a credere nelle possibilità soprannaturali del proprio corpo al punto di illudersi di imporre alla Chiesa la propria santità.

Maria Janis intrattiene un rapporto sempre più stretto con don Pietro Morali, unita a lui nella volontà di ottenere dalla fede un riscatto dalla propria condizione di “ultima”, per questo rifiuta il cibo: impara a non mangiare e non bere. Sostituisce al pane dell’uomo il pane degli angeli. Chiede al suo sacerdote di somministrarle la comunione quotidiana, come unico sostentamento al suo vivere, e nei giorni in cui per qualche ragione speciale non può ingerire l’Ostia consacrata, è colta da indebolimento.

Gli anni passano e i nostri due protagonisti vedono, sempre di più, gli occhi dei paesani puntati su di loro; cominciano le chiacchiere e per questo decidono di cambiare aria. Dopo la fuga da Zorzone don Pietro e Maria, prima di andare a Roma per poi approdare in un quartiere popolare e malfamato di Venezia, sostano per qualche tempo a Botta di Sedrina presso la casa del gentiluomo Vitali che crede in lei. In questa fase incomincia la parte più incredibile della vicenda. Il prete e la sua “santa”, pur già in odore di eresia presso la Chiesa, pur già ammoniti dalle autorità, sono convinti di poter portare il loro messaggio anche fuori dall’angusto mondo delle valli. Peccato che a Venezia, cosa non prevista, ci sia non la beatificazione ma fra’ Agapito Ugoni, inquisitore che conosce bene il suo mestiere.

 

Sono anni, quelli, in cui il Sant’Uffizio condanna “preti concubini, donne indovine, artigiani e barcaioli sorpresi a mangiar carne nei giorni di precetto”: basta poco per stuzzicare i solerti inquisitori. Così accade che un giorno a Venezia l’irregolarità delle pratiche condotte dalla strana coppia sia notata da una ragazza che sbircia la vita altrui attraverso una fessura. La pettegola vede Maria Janis, inginocchiata con le mani giunte, mentre riceve da un uomo una particola sulla lingua e la inghiotte. Questa scena porterà alla rovina Maria e il “suo” prete. La giovane impicciona si domanda se è consentito ricostruire il sacro rito in casa se la persona che riceve la comunione non è inferma. Quello che è stato spiato sarà rivelato l’indomani al confessore e dopo qualche giorno Maria e don Pietro vengono arrestati, avvolti nel “ferraiolo” e tradotti in carcere davanti al tribunale del Sant’Uffizio. Al prete viene trovato indosso un libretto di preghiere, una corona del rosario e un borsellino con pochi spicci. A lei viene sequestrata una scatola d’argento. Conteneva cinque ostie, se la teneva in seno. In casa le
guardie trovano libri di preghiere, rosari e vestiti da religiosi ma trovano pochissime provviste. Per i due protagonisti questa sembra essere l’occasione tanto attesa di rivelare, davanti a un pubblico così autorevole, che Maria ha un privilegio: quello di vivere da ben cinque anni di sola comunione.

Le testimonianze sulla capacità di digiuno della ragazza sono molto significative, anche se ne esiste qualcuna che tende a dimostrare il contrario. Ma quello che più impressiona è la caparbietà con cui i due si difendono affermando che neppure la tortura può indurre a dire diversamente. “Per quanto tempo non ha mangiato e si è comunicata ogni giorno? Per cinque anni non ha toccato cibo e si è comunicata tutti i giorni, eccetto i venerdì santi nei quali la cena celeste della vigilia continuava a produrre il suo effetto mantenendola in forza. E durante il viaggio, e poi a Roma e qui a Venezia? È sempre vissuta del pane degli angeli”

Fra’ Agapito, inquisitore del dominio veneto, deve sciogliere il grande nodo: quello del mangiare. Maria è veramente
santa oppure è una ciarlatana, una simulatrice e un’eretica? Riesce davvero a nutrirsi di ostie, e di ostie soltanto, oppure ogni
tanto, di nascosto, dà un morso a un panino o si regala una cucchiaiata di minestra? Sia il privilegio di Maria vero o non vero,
sfuggono ai giudici altre verità come la speranza ostinata, l’ingenua aspirazione e la fede vissuta come unico riscatto del povero. L’Inquisitore, non potendo spiegare la stranezza e l’irrazionalità di questo digiuno protratto sostenuto solo dalle frequenti comunioni, dà la colpa di tutto al diavolo e condanna i due che sono costretti ad abiurare e a negare la verità. Il tribunale ha sempre ragione. Il rogo non è necessario. Il prete esce ben presto dal carcere per l’intercessione di un mercante che paga 500 ducati come riscatto. Maria Janis, al contrario, finirà i suoi giorni in un “ricovero di derelitti”, un “pio luogo di mendicanti”, costretta dal Sant’Uffizio a recitare il rosario una volta la settimana, confessarsi una volta al mese e comunicarsi nei giorni stabiliti dal confessore imposto dal tribunale. Per lei, ormai non protetta da nessuno, non c’è più alcun riscatto. Il destino con lei si mostra incredibilmente prepotente e crudele.

Chi era Maria Janis? Una mistificatrice o una santa a modo suo? La vicenda è e rimane straordinaria qualunque sia la soluzione a questo appassionante mistero di quattrocento anni fa. La sua vicenda andava raccontata comunque! Termino con una citazione tratta dal libro “Il nome della rosa” che penso possa riassumere il senso di questo romanzo storico ambientato in gran parte nella nostra incontaminata Alta Val Serina:

“Tu hai vissuto in questi giorni, povero ragazzo, una serie di avvenimenti in cui ogni retta regola sembrava essersi sciolta. Ma l’anticristo può nascere dalla stessa pietà, dall’eccessivo amor di Dio o della verità, come l’eretico nasce dal santo e l’indemoniato dal veggente; e la verità si manifesta a tratti anche negli errori del mondo, cosicché dobbiamo decifrarne i segni, anche là dove ci appaiono oscuri e intessuti di una volontà del tutto intesa al male”.

Articolo estratto da “Quaderni Brembani n.15” e scritto da Cristian Bonaldi.

 

 

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