Alcuni storici e viaggiatori del passato ci hanno tramandato un ritratto, dal punto di vista estetico, fortemente negativo delle donne brembane e di quelle di altre valli bergamasche. Forse, come ovunque, non tutte delle Veneri, ma tutt’altro che brutte, se stiamo a alcune descrizioni e ai ritratti che abbiamo a partire dalla metà Ottocento, in particolare a quelli di inizio Novecento di Eugenio Goglio. A condizionarne a lungo l’immagine estetica molte ragioni: non solo l’isolamento, le pesanti condizioni di vita e il diverso tenore rispetto alle donne di città, ma anche il capillare, secolare influsso della religione, e non esclusa la tendenza da parte di molti uomini a sottovalutare i valori di femminilità, di grazia e di bellezza.
Un comune atteggiamento maschilista che si è protratto fino a pochi decenni fa, quando la donna era ancora considerata un essere decisamente inferiore e i cui requisiti principali consistevano unicamente nella capacità di mettere al mondo figli e svolgere, oltre ai soliti compiti quotidiani, mansioni talvolta pesanti, come raccogliere la legna e fare il fieno. Il delicato bon ton ariostesco rivolto al mondo generico femminile non fu di certo condiviso dal rettore veneto Mario Sanudo che, in una sua relazione del 1483, così descrisse le nostre: “…brute done ma fructifere”. Non fu da meno il viaggiatore calabrese Giovanni Francesco Gemelli Careri che due secoli più tardi, nel 1683, disse: “…le done sono elleno belle, e spiritose, ma non bisogna già sentirle parlare, cotanto rozza favella è loro toccata in sorte”.
In un suo viaggio attraverso la Valle Brembana, compiuto nell’estate del 1823, il poeta e scrittore piemontese Davide Bertolotti si avvalse di un incontro in quel di Lenna per commentare l’aspetto delle valligiane: “… mi serviva a mensa la Marietta, ch’è la Venere della vallea; coppiera ben degna del Giove cui ministrava ella il nettare. A dire il vero, ella non era spregevole, soprattutto nel mezzo alle rupi; ma nel generale le donne di Valbrembana sono laide, misere, vizze prima del tempo, e muove a pietà il vederle ansanti sotto immensi fasci d’erba che son ite a cogliere con pericolo de’ lor giorni sopra balze scoscese, ovvero gementi sotto gerli di carbone, la cui polvere annerisce la grama lor fronte”; sempre durante questo suo viaggio, passando per Mezzoldo, il Bertolotti ebbe inoltre a scrivere: “… era giorno di festa pel paese, e la chiesa era ingombra di donne, nessuna delle quali apparia da tanto di far nascere un pensiero profano.”
Di una tradizione antifemminile è ricca la storia, tanto che già la letteratura classica, da Orazio a Catullo, ci fornisce disgustosi ritratti femminili. Altrettanto antichi, da parte femminile, i tentativi di coprire o nascondere le imperfezioni o le bruttezze del corpo, con l’inevitabile insinuazione, da parte maschile, ma non solo, che il ricorso della donna a impiastri e a altri artifici per mascherare i suoi difetti fisici non era altro che una vanitosa illusione di rendersi piacente al marito o, peggio, agli estranei. Il problema della cosmesi venne affrontato nel mondo cristiano da Tertulliano che, con spietato rigorismo, ricordò come “secondo le Scritture gli adescamenti della bellezza fan sempre tutt’uno con la prostituzione del corpo”.
Anche durante il Medioevo prosperò il tema della vituperatio nei confronti della donna, biasimata per la sua malizia interiore e il suo nefasto potere di seduzione. Una condanna morale che ha tenuto fino ai primi anni del Novecento (con strascichi fino a 50 anni fa), in particolare nelle nostre valli, dove per rigore e tradizione la donna continuava a rappresentare una tentazione per l’uomo, una minaccia per la fede del religioso, emblema della lussuria e incarnazione del demonio. Per questo motivo era d’obbligo serietà e compostezza, assoluta dedizione alla casa e alla famiglia, rispetto e fedeltà nei confronti del marito. Curare eccessivamente il proprio corpo e ostentarne la bellezza significava trascurare
l’anima ed era peccato.
Fu così che all’epoca delle nostre nonne e bisnonne vigeva l’ipocrita motto del “si fa ma non si dice”, ossia il trucco doveva esserci, ma non essere notato, né soprattutto confessato. In realtà le mensole in legno delle loro “toelette” non erano poi così ricche di soluzioni cosmetiche, né a quei tempi si disponeva del denaro necessario per acquistarle. Si ricorreva dunque alla tradizione delle “ricette” casalinghe, tramandate di madre in figlia, e all’impiego delle principali essenze naturali, quelle che ancor oggi vengono adoperate in profumeria: menta, rosmarino, salvia, basilico, garofano, gelsomino, lavanda, agrumi vari, cannella, vaniglia e l’usatissima rosa. Nei ricordi d’infanzia è vivido l’odore di rosa che caratterizzava le nostre nonne e la morbidezza della loro pelle nonostante l’età non più giovane. Il loro segreto era l’acqua di rose. Le proprietà di questo infuso (si preparava in casa mettendo petali di rosa rossa in acqua bollente, poi filtrata e conservata in bottiglia pronta da utilizzare per due o tre settimane) erano molteplici e servivano per rinfrescare, decongestionare e rendere tonica e vellutata la pelle del viso e del corpo; poteva essere utilizzata anche per lenire le occhiaie e i segni della stanchezza, prevenire le rughe e pulire la pelle grassa o tendente all’acne.
L’acne, la comparsa sul viso di piccole pustole, era comune fra le adolescenti e, oltre a prevenirla con l’acqua di rose, la medicina popolare prevedeva pappine di pane grattugiato cotto nel latte oppure composte da farina di segale, tuorli di uova e olio di oliva. Ugualmente, per “sbiancare” le lentiggini, presenti sul viso delle giovani bionde o rosse di capelli, si passava dell’acqua in cui erano lasciati a infracidire dei pezzetti di tralci di vite appena potati. I capelli erano indubbiamente la parte del corpo che allora le donne curavano di più. Non erano solite lavarli spesso, onde evitare polmoniti fatali a causa delle basse temperature delle case, e i cattivi odori venivano nascosti con essenze di vaniglia, cannella e arancio. Infusi di erbe (di edera, di ortica o di camomilla) come shampoo e, in caso di pidocchi, l’olio delle lampade era il miglior
disinfettante. Solitamente si asciugavano al sole d’estate e accanto al camino o alla stufa d’inverno.
Possedere una folta e lunghissima capigliatura era a quel tempo un vanto prezioso e ineguagliabile, ma i capelli dovevano essere mantenuti rigorosamente in ordine, raccolti sulla sommità del capo a chignon o legati a treccia. Le donne che si mostravano con una capigliatura lunga, sciolta e disordinata, venivano spesso additate come streghe, mentre tagliare i capelli corti, “alla maschile”, era considerato peccato. Talvolta, soprattutto durante i lavori in casa, nei campi o nei boschi, erano solite coprire il capo con veli o foulard. Le acconciature di questo periodo erano molto semplici e richiamavano quelle delle donne di epoca classica. Le signore prediligevano un’acconciatura liscia e divisa nel centro dalla riga, con i capelli raccolti in una cuffietta, con trecce o boccoli che ricadevano sui lati, incorniciando il viso; a quei tempi, per arricciare i capelli, si avvolgevano le ciocche in un semplice ferro appena scaldato sul fuoco.
Allora come ora, allo spuntare dei capelli bianchi, le signore (e a volte i signori) si rivolgevano a tinture fai da te. Mentre nelle città e nei paesi maggiori iniziavano a giungere dalla Francia le prime tinture – nel 1907 l’ancora sconosciuto chimico francese Eugène Schueller lasciò il suo posto all’università Sorbona per sfruttare una sua invenzione, una tintura per capelli, alla quale un anno dopo diede il marchio L’Oréal – persistevano antiche ricette a base di lavaggi o impacchi di birra o camomilla, per rendere i capelli biondi, di mallo di noce puro, per il castano scuro (quasi indelebile, tanto che cute, fronte e palmi delle mani, restavano marcati per giorni), di cenere o dei residui del fumo, quello nero che permane sul fondo esterno delle pentole, per ottenere tinte scure più intense. Vi era poi il problema della calvizie, un argomento che toccava anche a quei tempi la sensibilità di uomini e donne.
Giornali e riviste dell’epoca pullulavano di réclame magnificanti le virtù di prodotti in grado di “far ricrescere i capelli ancor più folti di prima”.
Queste ricette erano brevettate da medici (il crescente business fece tuttavia affiorare sul mercato anche una serie di impostori) e vendute in farmacia. Tra i prodotti più pubblicizzati vi erano l’Anatricogeno del dottor Mazzoleni o l’Anticalvizie del dottor Munari: le formule spaziavano dai peperoni macerati nell’alcool, all’estratto di china mischiato all’acqua di sambuco, all’olio di ricino, alla tintura di cantaridi (specie di coleottero).
L’abbigliamento faceva senz’altro la sua parte. Laddove era a disposizione del denaro – ma già allora c’erano i periodi di saldo – sicuramente ci si poteva permettere qualche capo più sfarzoso e ornamentale, nonché collane e fermagli di ogni tipo. Prevalentemente di colore scuro (solo le bambine vestivano di bianco), gli abiti coprivano interamente il corpo, cintura intorno alla vita, sottoveste, e gonne lunghe ed ampie che tal volta si sviluppavano su diverse balze (il pedagn). La larghezza dei fianchi si contrapponeva a quella delle spalle, per la rigidità del corpetto, e il soprabito veniva spesso sostituito dallo scialle o da altri indumenti morbidi simili. L’eleganza era tuttavia una prerogativa della classe nobile e borghese; le donne meno abbienti erano solite confezionare i propri abiti in casa.
Quella ventata di rinnovamento, di modernità e libertarismo che, a inizio Novecento, giunse a San Pellegrino Terme contribuì in maniera determinante a diffondere un certo gusto per l’estetica e la cura del corpo. Le villeggianti, le donne nobili e borghesi che provenivano dalle città italiane e straniere per sottoporsi alle rinomate cure termali, apportarono nuove mode, nel vestirsi, nel truccarsi, nell’acconciare i capelli. Con la
belle époque aumentava anche tra le valligiane – ovviamente tra le più benestanti – quel desiderio, quell’ambizione, di migliorare il proprio aspetto. Tra i sontuosi palazzi della florida San Pellegrino spuntavano le insegne di sale da toiletta per uomo e per donna, profumerie, botteghe di parrucchieria e manicure; sulle mensole di drogherie e farmacie si vendevano creme per la pelle, colonie, acque di rosa e del Serraglio, tinture per capelli, prodotti anticalvizie, ciprie di bellezza (come la francese Florodor) e fondotinta, i cosiddetti “belletti bianchi” tinta carne e i “belletti rossi” usati per guance e labbra. Tra i principali marchi, ampiamenti pubblicizzati come altri sui giornali locali dell’epoca, spiccavano quelli della Venus, che produceva anche dentifrici, o quelli della Migone & C., nota per la Chinina-Migone, altra soluzione anticalvizie, l’Arricciolina-Migone, per arricciare i capelli, e ancora tinture, dentifrici, creme per la bellezza e per la conservazione della pelle.
Giunge così il tempo in cui estetica e bellezza si fondono in un unico armonioso concetto. Le successive guerre mondiali porranno un freno al suo evolversi, ma con gli anni Cinquanta e Sessanta, il boom economico, la pubblicità e il divismo televisivo, la bellezza femminile viene sempre più valorizzata. E di quel primo Novecento non ci resta che ammirare una preziosa testimonianza, una raccolta di fotografie e ritratti voluta dalla mano sapiente del fotografo brembano Eugenio Goglio: donne che ostentano con orgoglio e semplicità il fascino del loro tempo, perché anche allora la bellezza era virtù.
(Immagine in evidenza: due ragazze brembane ritratte da Eugenio Goglio nel secondo decennio del Novecento: a sinistra Caterina Fognini di Piazzatorre e a destra Margherita Rini di Moio de’ Calvi)
Articolo estratto da “Quaderni Brembani n.10” e scritto da Denis Pianetti del Centro Storico Culturale Valle Brembana