Talvolta la storia è costretta a indovinare. “Fortuna che ci è avvezza”, commenta – sempre attuale – Alessandro Manzoni (“I Promessi Sposi, cap. XIII). È nella sua modestia, il caso di quest’immagine emanante nell’originale, grazie anche alle “nuances” del viraggio-seppia, il fascino sottile di ciò che ci proviene dal passato. Nessuna indicazione, fuorché, sul retro, l’impronta d’un timbrodatario: “24.6.1909 – Sac. Carlo Artusi – Parroco Vedeseta”.
Valle Taleggio dunque, nella declinante Belle époque, quassù, in verità, non così bella come altrove: economia incentrata prevalentemente nelle attività silvo-pastorali, turismo ai primissimi albori, numerosi dei circa tremila abitanti costretti a trovare all’estero un lavoro più remunerativo (boscaioli e carbonai stagionali in Francia e Svizzera, oppure, per anni, a volte senza ritorno, nelle foreste amazzoniche o nella pampa). Sei ore di diligenza – nemmeno i notabili dispongono sempre d’un calesse o soltanto d’un cavallo da sella – da Bergamo lungo l’interminabile “Ferdinandea”, la carrareccia costruita ai tempi dell’Austria: tratta Ponti di Sedrina, Brembilla, Gerosa, Peghera, Vedeseta, Olda, Sottochiesa.
La carrozzabile collegata a San Giovanni Bianco attraverso le gole dell’”Orrido” è ancora in via di attuazione (a spese e cure, in larga misura, d’una società idroelettrica che ha dighe e centrali lungo il corso dell’Enna). Questa la cornice ambientale del nostro minuscolo “giallo”. Vediamo di risolverlo facendo cantare il “portrait” del cartoncino impreziosito da fregi in stile Liberty. “Cantare” non tanto come l’intendeva Guido Gozzano, ma piuttosto nell’accezione dei “mattinali” della questura. I commensali – membri dell’establishment locale, evidentemente -, giunti alla frutta, si misero in posa per la foto-ricordo, rito ormai consolidato anche in quelle contrade silvestri. La folta riunione conviviale – elementare Watson – coronava senz’altro un avvenimento di notevole importanza nella vita della comunità valligiana. Ma di esso, per quanto rimarchevole, non ci è riuscito trovare traccia negli “annales” (archivi comunali e parrocchiali) della “Piccola Svizzera delle Orobie”.
Occhio ai particolari, perciò. Non si tratta, è chiaro, d’un banchetto di nozze d’alto bordo (il quarto stato s’arrangiava, nell’occasione, con “casunsèi” e “polenta taragna” fatti in casa) e neppure d’una rimpatriata familiare: ritrovi immancabilmente caratterizzati da da una straripante presenza del bel sesso, i cui componenti, qui, non superano, invece, la mezza dozzina, contata anche la biondina in primo piano. Raduno di veterani delle campagne risorgimentali nel cinquantenario di San Martino e Solferino? Lo escluderemmo: se a quelle battaglie furono in campo dei valtaleggini, essi, in quanto sudditi lombardo-veneti, dovevano per forza militare nelle bianche schiere dell’Imperatore e Re. Eppoi, a quanto ci mostra la foto, venerande canizie e baffi d’argento, subissati da giovanili mustacchi e da capigliature alla Mascagni, non sembrano essere fatti oggetto di particolari distinzioni. Festa del Santo patrono, allora? Acqua: il 24 giugno ricorre quella di San Giovanni Battista, protettore di Sottochiesa, mentre, com’è universalmente noto, a pregare in Cielo per i vedesetesi “et eorum oves, boves et universa pecora” provvede, da secoli, Sant’Antonio abate (17 gennaio).
E seguitiamo ad osservare i dettagli. Le mense appaiono imbandite “en plain air (la stagione lo permetteva): forse in un cortile o sotto la tettoia d’un campo da bocce, con giusto due tendoni a fare da sipario. Verosimilmente, nessuna delle trattorie al di qua e al di là dell’Enna disponeva d’una sala sufficiente a contenere tanti convitati. Tra questi – tutti agghindati, lasciando perdere i due “descamisados” sulla destra, uno addirittura in frac (ma con la galletta nera: possibile che sia il cameriere con quell’aspetto da gentleman?) – fra questi, dicevamo, nel gruppetto al posto d’onore, spiccano alcuni abiti talari. Appartengono, secondo testimonianze degne di fede fatteci da alcuni dei valtaleggini più anziani, al prenominato don Artusi (nessuna parentela con il celebre gastronomo) a agli altri parroci di quei luoghi. Fanno loro corona, o stazionano lì appresso, i sindaci di Taleggio e Vedeseta con assessori e segretario (consorziato), il tesoriere-esattore, l’ufficiale di posta, il maestro. E questo, di per sé, basterebbe a darci, come si dice, una dritta. Ma vogliamo notare ancora che, nella fitta adunata vegliata dal Sacro Cuore in effigie sul fondale, c’è pure un robusto nerbo di possidenti e di “bergaminù” (i mandriani più cospicui scesi, per l’eccezionale evento, dagli alti pascoli della valle del formaggio).
Dunque? Beh, visto tutto ciò, propendiamo a credere, e riteniamo di non sbagliare, che il convivio immortalato dal fotografo (anonimo) concludesse, in gaudio e letizia, l’inaugurazione dell’agenzia vedesetese della Cassa rurale, società cooperativa avente per scopo il miglioramento, mediante operazioni di credito e di risparmio, delle condizioni dei soci, piccoli agricoltori (in genere con punta o limitata disponibilità di capitale liquido). Una vera provvidenza per quei contadini. Sorto in Prussia nel 1849 per iniziativa di F.W. Reiffeisen, l’istituto di lì a pochi decenni ebbe larga espansione anche in Italia. A favorirne la diffusione era sia il carattere famigliare della società che le condizioni particolari della nostra agricoltura, bisognosa, come s’è detto, di denaro liquido.
Ed essa, grazie alla “banca di précc”, ricevette un benefico impulso. La Cassa rurale era chiamata a questo modo nella Bergamasca perché aveva nel clero il promotore più attivo. Un sacerdote veneziano, monsignor Luigi Ceruti (1864-1934), uno dei più rappresentativi esponenti della corrente social cattolica ispirantesi alla enciclica “Rerum novarum” di Leone XIII, si rese benemerito e noto per il suo prodigarsi in favore dell’istituto. Il quale, nel 1922, contava in Italia, 3450 agenzie. La sua attività, nel’34, fu estesa agli artigiani. Quando cessò nel nostro paesello nessuno ha saputo precisarcelo. La Cassa rurale, oltre che a Vedeseta, apriva – così ci consta – i propri sportelli anche a Sottochiesa e a Peghera, verosimilmente nelle case parrocchiali. Nelle stesse, quando banche e uffici postali erano in Valtaleggio di là da venire, bergamini e pastori solevano depositare, affidandoli alla custodia del loro curato, denari e preziosi prima di salire all’alpeggio. Ciò spiega il fatto che, massime nell’Ottocento, come attestano le carte d’archivio, le canoniche venissero fatte oggetto di assalti e saccheggi da parte di briganti e disertori, che quando cadevano in mano alla gendarmeria imperial-regia finivano per pagare duramente il fio delle loro imprese banditesche. Qualcuno fra i più vecchi della tavolata l’avrà probabilmente ricordato. E la graziosa ragazzina sembra ancora turbata da quei racconti. Ma forse, la sua, era solo l’emozione della “prima volta” davanti al fotografo.
Articolo estratto da “Quaderni Brembani n.1” e scritto da Bernardino Luiselli.