Quel fattaccio (quasi) dimenticato al Bretto di Camerata

Del tutto ignoto, finora, è invece ciò che accadde al Bretto di Camerata Cornello, un fatto di cui quasi nessuno ha memoria, o che non si vuole ricordare per ragioni diverse.
29 Febbraio 2020

Agli inizi dell’ultimo decennio del Settecento, negli anni che precedettero la caduta della Repubblica di Venezia, la Valle Brembana era interessata dalla presenza di bande di malviventi che, forti dell’impunità garantita dalla scarsa efficienza delle autorità e delle forze dell’ordine, si dedicavano alle rapine e alle estorsioni. Sono entrate nella storia, in tal senso, le imprese di banditi della Val Taleggio, della Pianca e di Roncobello..

Del tutto ignoto, finora, è invece ciò che accadde al Bretto di Camerata Cornello, un fatto di cui quasi nessuno ha memoria, o che non si vuole ricordare per ragioni diverse. Una di queste bande di malviventi imperversava in Val Taleggio, non disdegnando di fare delle puntate verso la media Valle Brembana e una sera d’autunno arrivò a turbare la tranquillità del Bretto.

Gli abitanti del piccolo borgo si erano riuniti in una casa per la “festa del maiale”. Di giorno il proprietario della casa, che aveva invitato i suoi vicini, aveva ammazzato il maiale e ne aveva ricavato salami, cotechini e tutto il resto. Alla fine, con lo strutto recuperato dalle parti più grasse della “vittima”, la moglie aveva preparato delle ottime frittelle che all’epoca, e in qualche raro caso anche oggi, venivano chiamate saltansö; erano state inoltre preparate le meche (che oggi tutti chiamano popcorn, all’inglese, e che in italiano sarebbero i chicchi di granoturco soffiato), ma soprattutto la torta ricavata dal sangue del maiale. Di tutto questo avevano imbandito la tavola, senza dimenticare un paio di fiaschi di vino, tenuti in serbo per le grandi occasioni.

La serata era proceduta allegra, i grandi, un po’ alticci per il vino, chiacchieravano a voce alta e ogni tanto accennavano a qualche canto popolare, sulle note del suonatore di fisarmonica, che a quei tempi non mancava mai in nessun paese. I bambini più piccoli si erano ben presto addormentati e i giovanotti non trascuravano di lanciare qualche occhiata alle ragazze del vicinato, che finalmente potevano ammirare da vicino. A un certo punto fu bussato alla porta e prima che il proprietario potesse andare ad aprire, comparvero nel locale cinque sconosciuti, all’apparenza giovani, avvolti in pesanti tabarri e con il capo coperto da neri cappellacci tirati fino sopra gli occhi. Uno di questi ospiti imprevisti richiamò l’attenzione di tutti, perché si reggeva a stento, tenuto per le braccia da due compari, aveva la testa ciondolante e sembrava addormentato, o forse ubriaco fradicio.

 

I nuovi venuti, con modi piuttosto sgarbati, si tolsero i pesanti mantelli, fecero liberare una panca e vi si sedettero, uno di fianco all’altro, iniziando a divorare i rimasugli della festa e tracannando in fretta quello che restava del vino. Solo quello che sembrava ubriaco non mangiò, né bevve, ma si accasciò sul tavolo senza dar segno di interessarsi a quanto accadeva attorno a lui.  Al resto dei presenti non rimase che far buon viso a cattivo gioco, sopportando la prepotenza degli ospiti inattesi e cercando di mantenere viva l’allegria che si era assai affievolita, per non dire svanita.

Buona parte delle donne, con la scusa di mettere a letto i bambini, se n’erano andate, seguite dalle ragazze che si erano spaventate alla vista di quei prepotenti, che per giunta le avevano squadrate da capo a piedi con intenzioni tutt’altro che rassicuranti. Agli uomini fu invece intimato di restare e nessuno ebbe l’ardire di disattendere l’ordine. Finalmente, dopo che sulla tavola non era rimasto più niente da mangiare o da bere, gli indesiderati decisero che era giunta l’ora di levare il disturbo e se ne uscirono, dimenticando il loro compagno, che per tutto il tempo se n’era rimasto con la testa tra le braccia poggiate sul tavolo, senza mai proferire parola.

Gli uomini del Bretto, visibilmente sollevati per la fine di questa visita improvvisa e per niente apprezzata, cercarono di svegliare quello che era rimasto, prima scuotendolo leggermente, poi in modo più deciso, ma senza risultato, finché dovettero constatare che quel giovanotto che pareva ubriaco, in realtà era morto, e quasi certamente lo era già quando era arrivato, trascinato per le braccia dai suoi compari. La prova del decesso la trovarono in fretta: dopo avergli tolto il tabarro che si era tenuto addosso per tutto il tempo, si accorsero che in mezzo alla schiena aveva una ferita d’arma da fuoco, che verosimilmente era stata la causa della sua morte.

Che fare? Corsero fuori dalla casa, nella speranza di vedere gli altri, che sembravano essersi diretti verso la Pianca, e di richiamarli indietro ad occuparsi del loro compagno, ma ormai era passato troppo tempo e costoro dovevano aver percorso già molta strada. Dopo essersi consultati tra loro, ritennero opportuno svegliare gli altri uomini del Bretto alto e del Bretto basso, che non erano intervenuti alla riunione conviviale, e di comune accordo decisero per prima cosa di inviare due di loro alla Pianca, il Cospèta e un giovanotto suo parente, a chiamare il parroco, che forse poteva essere d’aiuto, in quanto non troppo tempo prima aveva già dovuto occuparsi di quattro malviventi ammazzati durante scontri a fuoco e li aveva fatti seppellire nella parte non consacrata del cimitero di quella parrocchia.

 

Preferirono, invece, non rivolgersi alle autorità di Camerata, dove si trovava anche un corpo della gendarmeria, composto da una ventina di militi a piedi e una quindicina di cavalieri, che se fossero stati fatti intervenire avrebbero potuto creare problemi alla tranquilla comunità del Bretto, fare domande, perquisire le case e inventare chissà quali altri fastidi.  La decisione parve la migliore possibile a questi uomini; non per niente gli abitanti del Bretto erano noti nel resto del comune di Camerata col soprannome di “notai”, perché erano abituati a discutere e a decidere di cose legali: questa loro familiarità con le norme che regolavano i rapporti tra le persone derivava forse dal fatto che nella valle vicina c’era più di un mulino, dove veniva a far macinare i cereali la gente di tutto il comune e dei paesi vicini, per cui era cosa abituale trattare di pesi, misure, prezzi e imposte. D’altronde nemmeno le contrade vicine erano esenti da nomignoli più o meno piacevoli: gli “avvocati” della Brembella, “i màia mòrcc” di Camerata.

Nell’attesa del parroco, fecero aprire dal Pinù, che ne custodiva le chiavi, la piccola chiesa di San Ludovico, situata in posizione equidistante e un poco discosta dalle due contrade del Bretto e vi trasportarono il corpo senza vita del malcapitato giovanotto. Poco dopo arrivò il parroco della Pianca, don Cristoforo Bonetti, il quale, dopo aver recitato le preghiere e benedetto il morto, consigliò ai presenti, e per loro tramite il resto della popolazione, a non divulgare in nessun modo quanto era accaduto e si riservò di prendere una decisione entro la mattina successiva. In attesa dell’alba, fu incaricato uno del gruppo, di nome Andrì, un uomo coraggioso che si prestava a dare una mano ai compaesani nelle varie necessità, di rimanere nella chiesetta a vegliare il morto. Gli diedero una bottiglia di grappa e lo lasciarono all’esterno della chiesa, dove l’Andrì, avvolto in un pastrano, si mise al riparo dal freddo nella nicchia di una finestra.

La grappa fece in breve il suo effetto e l’Andrì si appisolò, così non si avvide dei compari del morto, che erano tornati…
All’alba della mattina seguente, gli uomini del Bretto mentre si recavano alla chiesa, incontrarono l’Andrì che si lamentava e si grattava la testa, perché i malviventi lo avevano più volte colpito con un bastone, tramortendolo. Giunti di corsa alla chiesa, si accorsero che la salma era sparita, trafugata dai banditi nottambuli, che evidentemente avevano cambiato idea sulla sorte del loro compare ed erano tornati a prenderlo, convinti che facendo sparire il “corpo” del reato avrebbero cancellato le tracce del loro passaggio e delle malefatte che ne avevano causato la morte. Per la verità, la sparizione del cadavere fu provvidenziale per la comunità del Bretto, che fu liberata dalla necessità di disfarsi nella maniera il più indolore possibile dell’ingombrante presenza di un morto, il quale in seguito non fu più trovato: sparito nel nulla, come se non fosse mai esistito!

Articolo estratto da “Quaderni Brembani n.18” e scritto di Gervasio Curnis.

 

 

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